di Caterina Corucci
Tre giorni, quattordici persone con la stessa passione, un luogo suggestivo e soprattutto Sacha Naspini, autore, fra gli altri, del romanzo “Le case del malcontento” (e/o) e di “Ossigeno”, in uscita per la stessa casa editrice. Questi gli ingredienti che dal 14 al 16 giugno hanno reso l’Agriturismo Montevaso un posto seducente, e per me che l’ho vissuta, un’esperienza che non dimenticherò.
L’Agriturismo Montevaso è un imponente casolare rosso che il tempo ha scolorito con eleganza, di proprietà della famiglia Pompeo da fine anni ‘60. Sta in mezzo a un bosco di 400 ettari, a Chianni in provincia di Pisa, e ospita seminari sulla comunicazione, pittura, teatro, scrittura, nonché meditazione e yoga. Sembra fatto apposta per incontri del genere, e per questo in particolare, dove l’importante è vivere e respirare il laboratorio senza distrazioni, per tre giorni e due notti. Si arriva, si parcheggia, e appena scatta la chiusura della macchina ci si chiude fuori dal mondo, quello degli impegni quotidiani, quello del lavoro. Forse perché intorno, ovunque si guardi, le colline e i boschi si stendono a perdita d’occhio senza nessuna interruzione, forse perché il silenzio è davvero totale, se non fosse per quel leggero sussurro, quasi un frullo d’ali, che fanno le foglie dei due grandi platani “guardiani” della casa, agitate dall’aria che ondeggia.
Questo è il secondo anno che Enrico Pompeo invita Sacha Naspini a tenere il laboratorio di scrittura, grazie alla stima reciproca e l’amicizia nate quando Sacha, poliedrico, disegnò la copertina del suo secondo romanzo, “Il Drago, il Custode, lo Straniero”. Enrico conosce bene il modo di lavorare di Sacha, è lo scrittore perfetto per quello che ha in mente di fare. Mette insieme un gruppo di persone con la stessa “malattia”: ci sono scrittori, editori, c’è chi oltre a scrivere fa altro, medico, impiegato, insegnante, cantante. Quest’anno c’è un ragazzo, editor, che ha iscritto anche sua madre, del tutto ignara; lei è un’avida lettrice e ammiratrice di Sacha Naspini, lui vuole farle una sorpresa.
Ebbene, Pompeo prende queste persone e le mette in quel luogo speciale, Naspini fa il resto.
Intorno ad un lungo tavolo di legno, nell’edificio che un tempo era la stalla accanto alla grande casa rossa e che ora è la sala ristoro, lo scrittore si pone in mezzo a noi e ci stuzzica con domande e spunti di riflessione: cosa significa essere uno scrittore? Perché scrivo? Quando si riesce a essere onesti, veri? Come trovare la propria voce? E’ un insegnante mascherato da agitatore, o forse un agitatore mascherato da insegnante; lascia che le risposte emergano dalla discussione. Mentre peschiamo da un cesto messo al centro, ciliegie e albicocche appena colte, leggiamo Ray Bradbrury, stralci da “Lo zen nell’arte di scrivere”.
Il secondo giorno Sacha comincia a fare sul serio, parliamo dell’ispirazione, la musa, come trovarla, come nutrirla, ci dà esercizi crudeli: si scrive col cronometro, con dei paletti, e l’obiettivo è tenere il nord, portare avanti la storia senza perdersi. Ognuno cerca il suo posto migliore per scrivere, con carta e penna, tablet o computer, chi si mette sotto il platano, chi prende il sentiero che porta nel bosco ruzzolandosi le idee nella testa e nelle scarpe, chi resta all’interno, al tavolo o vicino alla vecchia mangiatoia. Poi ci leggiamo, ci confrontiamo. Mi sento arricchita dalle parole di Naspini, ma anche dalle storie di queste persone, dalle loro virgole, dai loro spazi bianchi; mi sorprendo di come pur conoscendole da poche ore mi sembri di conoscerle da sempre, sarà che peliamo insieme le patate, o che ci passiamo il pecorino con le mani.
I pasti sono organizzati da Enrico stesso, il quale, oltre che scrittore e insegnante è pure cuoco; si sveglia prima di tutti e non va mai in pausa, ma c’è collaborazione, chi apparecchia, chi mette i bicchieri in lavastoviglie; poi si torna a scrivere.
Sacha ci dà stimoli nuovi, ci parla dell’ironia, proviamo a metterla su carta e riusciamo a farlo ridere; e senza accorgercene si fa sera, alziamo gli occhi dai quaderni e fuori è calata la nebbia, usciamo a indossare il grigio impastato e fumoso e rabbrividiamo un po’. D’altra parte, dicono ci sia un fantasma, a Montevaso.
Dopo cena si suona la chitarra, la cantante ci diletta con la sua voce potente e chiara, e davanti a un buon Chianti qualcuno propone di scrivere tutti insieme una canzone. E passa un altro giorno.
La mattina è bello scoprire di essere ancora lì, pane burro e marmellata e via di nuovo al tavolo di scrittura. Sacha ci parla del conflitto, poi, con quel suo fare riservato ma incisivo ci chiede di attingere alle nostre ossessioni, di lasciar parlare i libri che abbiamo letto da ragazzi, gli odori sentiti al mercato, i leoni che da piccoli abbiamo visto allo zoo, insomma, quella roba là, dice lui, toccandosi fra il torace e lo stomaco. E noi scriviamo l’istinto, il fascino della paura, lo buttiamo sulla pagina e ci infiliamo un conflitto di traverso, poi ci lasciamo cadere un personaggio e vediamo cosa fa, se tiene il nord. Soffriamo se resta in bilico, respiriamo se il cerchio si chiude, tutto in terza persona, per non starci troppo male, ma sentiamo sempre, assolutamente, ogni emozione, ogni colore. Quella roba là, appunto.
Il terzo giorno nessuno ha voglia di partire, ci diciamo che tre giorni sono troppo pochi, l’anno prossimo almeno cinque. Siamo tutti un po’ tristi per questa bella cosa che sta finendo, ma Sacha ci avverte, non è finita per niente, quello che ci portiamo a casa continuerà a lavorarci dentro per un bel po’. Mi fido del suo sguardo nitido, sento che sarà così. Lo sento da quando mi avvicino all’auto con la valigia e faccio scattare la serratura; ecco che mi torna addosso la normalità, ma i miei leoni ormai sono entrati nel salotto, il fantasma me lo sono fatto amico, e io sono un po’ cambiata.
(23 giugno 2019)
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