di Simona Pacini
“Eran li cittadin miei presso a Colle
in campo giunti co’ loro avversari,
e io pregava Iddio di quel ch’e’ volle”.
(Purgatorio, XIII)
Questi versi della Divina Commedia ci portano nel vivo di una ricorrenza molto importante. Il 17 giugno 2019 si celebrano infatti i 750 anni della Battaglia di Colle (1269), che vide scontrarsi i ghibellini senesi e i guelfi fiorentini nove anni dopo la Battaglia di Montaperti, sicuramente più famosa ma, per gli esiti politici dell’epoca, non certo più importante.
Come ogni evento, anche questo assume un significato diverso secondo il punto di vista da cui lo si osserva. La battaglia di Montaperti fu combattuta il 4 settembre 1260 fra i ghibellini senesi (e con loro gli alleati di Massa e di Pisa) e i guelfi fiorentini (col sostegno di Lucca, Perugia e Orvieto e della Lega Lombarda) a sud di Siena. La vittoria senese colloca questo combattimento (di cui Dante scrisse “lo strazio e ‘l grande scempio che fece l’Arbia colorata in rosso”, Inferno, X, 85) fra i grandi eventi della storia della città del Palio.
La storia però non si fermò a Montaperti. Anzi, non solo dopo la battaglia del 1260 i ghibellini (ovvero i sostenitori del potere dell’imperatore), giunti all’apice del loro potere, iniziarono una lenta quanto inesorabile discesa, ma solo nove anni dopo furono sconfitti dai guelfi (che ritenevano il papa il giusto detentore del potere temporale), riportando dunque l’ago della bilancia del potere in Toscana, a Firenze, con effetti che si fecero sentire tuttavia in buona parte della penisola.
Non per niente la battaglia di Colle viene definita dagli storici, con gergo quasi calcistico, come “la rivincita di Montaperti”.
Dante la ricorda nel tredicesimo canto del Purgatorio affidandone il racconto alla nobildonna senese Sapìa, zia di Provenzano Salvani, l’eroe di Montaperti, ma anche sua acerrima nemica, che assistette alla battaglia dove il nipote fu ucciso e decapitato, pregando Iddio che i senesi fossero sconfitti, come infatti avvenne.
“Savia non fui, avvegna che Sapìa
fossi chiamata, e fui de li altrui danni
più lieta assai che di ventura mia”.
Sapìa Salvani andò sposa a Ghinibaldo Saracini, ghibellino senese poi passato nelle fila dei guelfi. L’uomo era il proprietario di Castiglion Ghinibaldi, castello tra Staggia e Monteriggioni, situato nella piana in cui alcuni storici individuano il luogo in cui si combatté la battaglia di Colle. In realtà non sarebbe avvenuta lì, né tantomeno nella Piana delle Grazie come sostengono altri. Secondo gli studi compiuti dallo storico senese Curzio Bastianoni, di cui nel 2017 è stata pubblicata la terza edizione del saggio del 1970 “La battaglia di Colle”, il luogo del combattimento è da individuare invece alla Badia di Spugna, sulla piana che sovrasta la riva destra dell’Elsa, unendo Colle a San Marziale.
Sapìa, che Dante colloca nella seconda cornice del Purgatorio, fra gli invidiosi, avrebbe visto lo svolgersi della battaglia con i propri occhi, gli stessi che per effetto della punizione divina, da morta, le furono cuciti con il fil di ferro. Non è certa nemmeno la collocazione di Sapìa durante la battaglia. Sicuramente non assistette ai combattimenti dal bastione che porta il suo nome, situato dalla parte di Colle che guarda a Bacìo (dove però il 15 giugno, probabilmente per comodità logistica, verrà rappresentata la rievocazione storica dell’evento). Molto più probabile che abbia osservato la scena dalla torre di Arnolfo, sopra il Baluardo, da cui si ha un’ampia visuale sulla Badia.
Proprio su quella piana erano posizionati gli accampamenti senesi, per cui Bastianoni e altri ritengono che l’attacco a sorpresa effettuato dal Maniscalco di Re Carlo d’Angiò, Giovanni Britaud, prima ancora dell’arrivo del grosso della fanteria guelfa da Firenze, sia avvenuto in un luogo poco distante, nella stessa zona.
“E perché tu non creda ch’io t’inganni,
odi s’i’ fui, com’io ti dico, folle,
già discendendo l’arco d’i miei anni.
Rotti fuor quivi e vòlti ne li amari
passi di fuga; e veggendo la caccia,
letizia presi a tutte altre dispari,
tanto ch’io volsi in sù l’ardita faccia,
gridando a Dio: “Omai più non ti temo!”,
come fé ‘l merlo per poca bonaccia”.
La Battaglia di Colle si concluse con la vittoria dei guelfi fiorentini e la disfatta dei ghibellini senesi. Sul campo rimasero all’incirca un migliaio di morti mentre i prigionieri furono milleseicentoquarantaquattro. Provenzano Salvani fu ucciso (riporta ancora il Bastianoni) per mano di tal Cavolino o Regolino Tolomei, fuoriuscito senese, e la sua testa, tagliata, issata su una picca, fu portata in giro nell’accampamento senese e quindi esposta sulle mura di Colle.
Si realizzò dunque la profezia di un indovino secondo la quale la sua testa sarebbe stata la più alta nel campo.
“Pace volli con Dio in su lo stremo
de la mia vita; e ancor non sarebbe
lo mio dover per penitenza scemo,
se ciò non fosse, ch’a memoria m’ebbe
Pier Pettinaio in sue sante orazioni,
a cui di me per caritate increbbe”.
La storia narra che Sapìa e il marito vollero realizzare un ospedale e un oratorio a Castiglion Ghinibaldi, fatto che valse loro l’assoluzione da parte del papa Clemente IV da tutti i loro peccati. Sicuramente Sapìa, nel periodo della battaglia, non viveva nel castello del marito, situato in territorio senese e quindi sotto il controllo dei ghibellini da lei tanto odiati. Risulta invece che avesse acquistato una casa a San Gimignano ed è probabile che da lì si sia in seguito spostata a Colle Val d’Elsa, definita da Bastianoni “la punta avanzata guelfa in territorio senese”, dove tutt’oggi campeggia il bastione che porta il suo nome.
Tornando a Dante, pare che questi avrebbe trovato Sapìa in attesa nell’Antipurgatorio, come spiega lei stessa, se Pier Pettinaio non avesse pregato per lei, facendola così avanzare nell’espiazione della pena.
La nobildonna inoltre intuisce che Dante è vivo e gliene chiede la ragione.
«Oh, questa è a udir sì cosa nuova»,
rispuose, «che gran segno è che Dio t’ami;
però col priego tuo talor mi giova.
Il poeta tornerà sulla terra, dunque, cosa che non è data ad alcuno di quelli con cui Sapia è costretta a condividere il tempo e la pena. La donna, che già aveva detto a Dante, presentandosi, “io fui sanese” chiede allora al Poeta di restaurare la sua fama fra i vivi, se dovesse tornare a calcare la terra di Toscana. Dovrà farlo specialmente, precisa, con i parenti di Sapìa, che Dante potrà trovare tra quella gente stolta (“vana”, ovvero i senesi, concittadini dei Salvani) che spera nel porto di Talamone (acquistato dai senesi a caro prezzo, per avere uno sbocco sul mare), e vi perderà più speranze che nello sforzo di cercare il fiume Diana, quello che secondo la leggenda dovrebbe scorrere nei sotterranei di Siena, ma che in realtà non è stato mai trovato. Ma più speranze ancora, in tutto questo, saranno perse dai comandanti.
“E cheggioti, per quel che tu più brami,
se mai calchi la terra di Toscana,
che a’ miei propinqui tu ben mi rinfami.
Tu li vedrai tra quella gente vana
che spera in Talamone, e perderagli
più di speranza ch’a trovar la Diana;
ma più vi perderanno li ammiragli»”.
Che ne fu di Sapìa? Sappiamo, come dice ella stessa, che al tempo in cui gioì per la sconfitta dei senesi a Colle era già in tarda età (“in su lo stremo de la mia vita”). La morte della nobildonna è anch’essa avvolta nel mistero, così come la nascita che si colloca tuttavia a Siena intorno al 1210. Sulla sua fine girano diverse ipotesi. Luigi Biadi in Storia della città di Colle riporta che la tradizione “vuole che fosse o strangolata in Colle (per mano di un sicario senese, ndr), sotto la volta dello Spuntone, a tergo del Palazzo Salvetti (nel medioevo Palazzo Luci, ndr) o morta di fame”.
In realtà, ed è ancora Bastianoni a venirci in aiuto, la morte di Sapìa sarebbe avvenuta a Siena nel 1274, dove la nobildonna poté tornare nel 1272, riprendendo possesso della sua casa in San Donato, dal momento che i ghibellini avevano perso il potere. Gli esponenti della corrente imperiale, in seguito alla decadenza, avevano perso anche tutti i loro diritti, fatto che li aveva portati a convertirsi alla fazione guelfa, anche solo per poter ricevere un’eredità o per mantenere la proprietà dei loro beni. È a Siena che Sapìa avrebbe trascorso dunque gli ultimi due anni della propria vita. Qui, ormai vedova e gravemente ammalata, il 15 maggio 1274, infirma corporis ma sana di mente, rilasciò il testamento nel quale indica la figlia, probabilmente la primogenita, come unica destinataria del patrimonio di famiglia, con l’eccezione di alcune donazioni alla città di Siena e al vescovo di Volterra.
(13 giugno 2019)
Foto di copertina: dipinto di Gino Terreni
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