di Simona Pacini
Era il 2010 quando Francesco Mencacci, dopo aver studiato scrittura creativa in giro per l’Italia, bussò alla porta della storica libreria Belforte di Livorno proponendo un corso tutto suo. Il libraio accettò. All’inizio si iscrissero sei, sette allievi. Ma pian piano ne arrivarono sempre di più, tanto che i corsi raddoppiarono, mentre gli studenti erano diventati una cinquantina.
Oggi quella libreria purtroppo non c’è più. Mencacci invece ha fondato la Scuola Carver, una realtà ormai radicata a Livorno, che può contare su oltre duecento studenti sparsi tra la Toscana e il territorio nazionale.
Francesco, come è nata l’idea di creare una scuola di scrittura?
“Eravamo un piccolo gruppo, fra amici e allievi del mio corso, legati dalla passione per i libri e la scrittura. Nel 2015 abbiamo deciso, su mia iniziativa, di mettere su una scuola. Ma ci mancava una sede. Per fortuna avevo già un mio nome, c’era stata una gavetta. Mi proposi in librerie e biblioteche. La prima ad accettare con entusiasmo fu la Feltrinelli di Livorno. Ora Feltrinelli è nostra partner. È una sinergia che funziona molto bene, ci danno gli spazi e noi compriamo i libri da loro. Ogni anno a settembre consegno in libreria la lista dei testi che citeremo nei corsi, così che siano sempre disponibili. E poi portiamo spesso gli autori alle lezioni, accollandoci eventuali spese. Quindi per la libreria è tutto gratis. So che il direttore della Feltrinelli Livorno nelle riunioni nazionali propone questa collaborazione come modello per le consorelle. Feltrinelli poi ospita anche eventi eccezionali, sempre organizzati da noi, come l’incontro con Ilide Carmignani sulla traduzione e altri”.
Avete anche una sede vostra?
“C’è la Villa del Presidente per la quale abbiamo vinto il bando della Provincia. Si trattava di uno spazio pubblico inutilizzato, disabitato, spoglio. Ora è stato affidato a quattro fra associazioni e scuole, che la utilizzano in alternanza offrendo iniziative riguardanti la musica, la scrittura e la lettura, il teatro”.
Che cosa si studia alla Carver?
“Ad oggi abbiamo quattro corsi: quello base, tenuto da me, uno sul racconto e un altro sulla poesia con Valerio Nardoni, docente universitario, e uno dedicato al romanzo con Veronica Galletta, ingegnere con la passione della scrittura. Loro due li abbiamo chiamati successivamente, non erano nel gruppo originario”.
Di scuole di scrittura ne sono nate diverse in Italia negli ultimi anni, voi che metodo seguite?
“Il corso base è il nostro cavallo di battaglia. Alleniamo lo sguardo, lo stupore, lo straniamento, cercando di stimolare queste attitudini propedeutiche alla scrittura. Chi viene da noi deve mettere in moto la macchina dello stupore, dell’immaginazione, lavorare sul forno delle idee. Proprio come se fossero pagnotte da impastare e infornare. Lo straniamento significa allontanarsi dalla nostra abitudine. Ora, per esempio stiamo affrontando le figure retoriche, l’esattezza calviniana. Si cerca di costruire una base sui fondamentali. Scrivere è un po’ come andare in palestra, occorre fatica per prepararsi. Ai 100 metri se sei un raccontista, alla maratona se ti senti un romanziere, al salto in alto se sei un poeta. Moravia diceva che lo scrittore è un tizio che sale su un albero. Deve farsi raggiungere dal lettore. Se è un poeta sale ancora più in alto”.
Come si diventa insegnante di scrittura creativa?
“Innanzi tutto è un percorso personale. Per la scrittura creativa non esiste un albo o una struttura professionale. Non è un settore riconosciuto a livello nazionale, a differenza di quanto avviene negli Stati Uniti, dove ogni università ha i suoi corsi e i suoi docenti di creative writing. In Italia invece si pensa ancora ai corsetti per casalinghe disperate. Però grazie anche alla Scuola Holden di Torino, che quest’anno ha avuto un importante riconoscimento come corso universitario, sono stati fatti grossi passi in avanti. Per quanto mi riguarda, ci tengo a dirlo, ho fatto un mio percorso prima di avviare la scuola, concentrandomi sulle basi, sulle fondamenta. Ho seguito dei corsi. Mi sono ascoltato tutti i consigli di lettura di Baricco su YouTube, da Pickwick in poi, la lezione su Garcia Marquez. Può piacere o no, ma come divulgatore è incredibile. Le competenze, poi, te le crei sul campo. Se qualcuno paga per vederti vuol dire che vale la pena ascoltarti. È una cosa libera, nessuno costringe nessuno”.
Quali caratteristiche deve avere un buon insegnante di scrittura?
“Di sicuro servono una grande passione per la letteratura, lo studio della letteratura, la capacità di comunicare e di contagiare gli altri. La formazione è permanente, non finisce mai. Individualmente, durante l’estate seguiamo dei corsi di scrittura in scuole che stimiamo. Io poi studio e mi preparo su testi universitari. Sto pensando anche di prendere una seconda laurea in lettere, dopo quella in economia e commercio.
Nel Simposio, Platone dice che bisogna cercare di erotizzare il sapere. Agatone, un allievo, va da Socrate, si inchina e porge il capo. ‘Maestro, riversa su di me il tuo sapere’. Socrate si rifiuta. Gli spiega che non funziona così. ‘Non le nozioni, devo comunicarti il mio amore per il sapere. Più mi vedi appassionato, più è facile per te essere contagiato’.
È successo anche per la Divina Commedia, con le vendite schizzate alle stelle negli ultimi dieci anni grazie a Benigni. Con la sua passione spinge la gente a ricomprarla, a rileggerla.
Un buon docente, dunque, deve erotizzare il sapere. Deve far capire perché amiamo Madame Bovary, perché va letto Conversazioni in Sicilia. Umberto Eco, poco prima di morire, parlando di scuole di scrittura, disse: ‘Non ci andrei mai se mi promettessero di insegnarmi a scrivere come Balzac. Ma ci andrei se mi facessero vedere la bellezza della prosa di Balzac’. Il nostro compito è spiegare la bellezza di un testo letterario. E contagiare gli altri con la passione, senza nozionismo accademico”.
Qualcuno sostiene che sia impossibile insegnare a scrivere. Ma allora, a che cosa servono le scuole di scrittura?
“Io penso che bisogna restituire dignità alle scuole di scrittura. Naturale che ci siano dei pro e dei contro, questi ultimi spesso basati su pregiudizi e luoghi comuni. Non ci aspettiamo che un nostro allievo dica ‘Sono stato alla Carver, ora so scrivere’. Ma semmai ‘mi sono divertito, ora riconosco la bellezza di quello che leggo’. È importante divertirsi mentre si impara.
Nardoni quando insegna all’università utilizza il metodo Carver e si trova in difficoltà perché i ragazzi si aspettano un’impostazione cattedratica. Se fanno esercizi, di scrittura creativa, di traduzione, sono disorientati. Ci vogliono almeno due, tre mesi perché si abituino.
Questo ci fa capire la distanza che c’è fra una scuola di scrittura e il mondo accademico. Tra chi desidera scrivere e chi vuole occuparsi di letteratura. Chi esce dall’università non sa scrivere. Una tesi sì. Ma un racconto con l’intenzione di affabulare il lettore, no. La laurea in lettere non ti insegna a scrivere in questo senso.
La scuola di scrittura ha una sua dignità didattica. Certo, se mi dici: segui le mie regole e ti insegno a scrivere un racconto, non sono d’accordo. Io posso fare lezioni sulle tecniche, su stili e stilemi, mostrarti come scrivevano Maupassant o Carver, ma l’artefice è solo dentro casa sua. Noi non vendiamo illusioni. Le scuole che lo fanno sono le peggiori. Non offriamo ricette per scrivere un romanzo di successo. È pur vero, però, che se non hai mai scritto, andare a bottega da Carver o da Hemingway, funziona. Come nel Rinascimento si andava dai maestri per imparare il mestiere. Anche Picasso è andato a scuola, poi una volta che ha imparato, ha rotto con la tradizione e ha inventato il cubismo. Auspico che i nostri ragazzi facciano lo stesso, che dopo un percorso di imitazione possano seguire il loro percorso e riescano a riconoscere la loro voce”.
Quanto ti impegna la scuola?
“Per la gestione e l’insegnamento dieci ore al giorno, sette giorni su sette. Siamo in una fase di crescita, dobbiamo capire che cosa fare da grandi. Pochissimi anni fa era una bambina, un’adolescente, ora si avvia a diventare adulta. Ci sono scelte impegnative da assumere. Pensiamo, valutiamo. Ho un collaboratore per gestire la parte social che ci lavora almeno tre, quattro ore al giorno. Io per tre ore rispondo alle email, quattro mi servono per preparare la lezione. Prima la preparavo in sei ore e in un’ora rispondevo alle email. Per fortuna”.
Vi scrivono in molti?
“Sì, ricevo molte richieste di informazioni e diverse domande di case editrici per la promozione degli autori. Bisogna pensare che uno scrittore, anche se pubblica con Einaudi, alla presentazione se non è conosciuto raccoglie sì e no cinque persone. Con noi c’è la certezza di una platea di venti persone che hanno letto il libro e fanno domande. Tutto ciò richiede un lavoro organizzativo incredibile. La scuola ha le sue tappe: partiamo a ottobre e chiudiamo a giugno. Poi ci sono gli eventi straordinari, i seminari, gli approfondimenti. E non solo per Livorno, perché abbiamo corsi attivi in altre sette sedi in Toscana, mensili o workshop. Un bel lavoro. Io faccio anche lezioni individuali o di gruppo via Skype. Ho allievi di Bari, da Modena mi seguono nove signore sul racconto”.
È una realtà in espansione…
“Sicuramente. Abbiamo da poco inaugurato il corso di cinema e quello di narrazione orale. Abbiamo aperto una collana su Valigie Rosse, una casa editrice gemellata grazie a Nardoni, che è uno dei suoi fondatori, con progetti di nostri allievi. Ora lavoriamo in sinergia. Io ne sono il direttore editoriale, faccio l’editing. Pubblichiamo la raccolta di fine anno con i racconti degli studenti, un’iniziativa unica, originale nel panorama nazionale. Per qualcuno è una cosa eccezionale. Una signora che non ha mai scritto in vita sua fa un corso, dopo pochi mesi pubblica un racconto e se lo trova in un libro sullo scaffale di casa. Ho visto persone con le lacrime agli occhi per questa piccola gioia. Io sono orgoglioso di questo. E tutto a prezzi accessibili, perché siamo una scuola inclusiva”.
Quando i tuoi allievi pubblicano un loro libro, che significa per te?
“Una grande soddisfazione. Ad oggi abbiamo quattro libri di allievi pubblicati nelle Valigie di Carver. Altri cinque, sei sono in lavorazione. Capita che un allievo dopo un anno o due di corsi collettivi, voglia togliersi la soddisfazione di uscire con un lavoro suo. Tutto dipende dalla voglia della persona. La cosa importante è che noi non coccoliamo illusioni, se non quella di togliersi la soddisfazione di pubblicare e avere il libro sullo scaffale. Chiediamo anche una giusta remunerazione come professionisti del libro, come editor, non lo facciamo gratis. È un servizio professionale. Ma alla fine non si è mai lamentato nessuno. Naturalmente non è che non guardiamo la qualità. C’è un livello da raggiungere, infatti non accettiamo tutti. Ma se hai un po’ di mestiere e un pizzico di talento, vai in porto”.
Preferisci scrivere o insegnare?
“Più insegnare. Penso di avere una predisposizione naturale, un patrimonio genetico, fra genitori e zii. Mi piace stare davanti alle persone e comunicare la passione per i libri. Poi in realtà scrivo sempre: email, lezioni. Ogni tanto riesco a ritagliarmi un’oretta e scrivo per me. Dopo la pubblicazione del mio libro (“Le stelle benevole, otto conversazioni sugli effetti collaterali della lettura”, Valigie Rosse, 2017), propendo molto per la saggistica. Ora ho un progetto in fondo al cassetto, molto in fondo. È una cosa divertente, se mi diverto vado avanti. Anche perché scrivendo tutto il giorno o ti diverti o non ne fai niente. Oggi dovevo studiare Salinger, Un giorno ideale per i pescibanana. Ho scritto sei pagine. Poi ho la lezione e alle 21 sono a casa”.
Che cosa manca alla tua scuola?
“Tante cose. Forse una più di tutte. Manca un piano marketing più professionale. Dobbiamo investire in promozione. Mancano docenti in grado di recepire il nostro metodo e portarlo avanti. Peschiamo fra i nostri allievi, ogni tanto li mettiamo alla prova. È un percorso lungo e faticoso, spesso mi confronto con chi ne sa meno, ma anche quanto o più di me. Ci sono allievi che arrivano da master, dalla docenza. Non posso non essere preparato alla perfezione, per poterli interessare. Questi scelgono liberamente di passare un sabato pomeriggio con me, pagando. Una bella responsabilità. Occorre un registro adatto a tutti i tipi di persone. Lavoriamo anche con le scuole. Lì è più facile. Hai trenta quindicenni costretti ad ascoltarti, i prof in adorazione perché ci sei te a far lezione e loro si rilassano. Invece, quando hai davanti la laureata in lettere antiche, è diverso. Ma non puoi pensare di sapere tutto. Me lo ha insegnato mia madre. Ammetti di non sapere e te la studi per la prossima volta. Ci vuole umiltà. Mancano docenti anche per poter lavorare di più col pubblico. Al momento abbiamo 200 allievi in Toscana, 70 solo a Livorno. La Holden, per dire, ne ha 400 fissi. Col pubblico però lavoriamo poco, nelle scuole, nelle biblioteche. Il mio sogno sarebbe quello di avere 10mila euro all’anno dall’assessorato alla cultura di Livorno, così potrei offrire corsi gratuiti. In questo momento succede con il Comune di San Vincenzo. Occorre trovare un modo per attirare i ragazzi, altrimenti ce la cantiamo e ce la suoniamo”.
Progetti per il futuro?
“Sto lavorando per inaugurare un nuovo modulo didattico a ottobre, sul quale studio da mesi. Intanto lo testerò in queste ultime settimane di lezioni. È sul perché leggere i classici, incentrato più sulla lettura che sulla scrittura, ispirato alle lezioni sui classici tenute da Calvino, Baricco, Eco, Nabokov. Si tratta di approfondire l’analisi su dodici testi con la classe. Scegliamo un romanzo o due in lettura e poi approfondiamo, analizzando lingua, stile, stilemi, tecnica, il perché è diventato un classico. Sarà una cosa in più. Spesso gli allievi ci chiedono di leggere di più e scrivere di meno. Sarà anche un percorso con ospiti, che prevede un coinvolgimento attivo sulla critica e l’analisi dei testi. Poi ci sarà un evento a Livorno con Vanni Santoni il 28 aprile, su un autore ancora da decidere. E l’8 giugno, a chiusura dei corsi, un workshop di scrittura con Sasha Naspini su scrivere il sommerso, come si scrive quello che non si vede, capire come uno scrittore riesce a seminare sotto la superficie dei significati”.
Un’ultima domanda, perché Carver?
“Perché per noi è lo scrittore che ha dato importanza allo stupore nel quotidiano. ‘Uno scrittore è capace di stupirsi davanti a tutto, anche a una scopa rotta’, diceva. Poi perché Carver ha scritto Il mestiere di scrivere, un manuale che apre la bottega all’aspirante scrittore. È stato uno dei pochi che ha aperto la bottega artigiana. Ma l’ha fatto con più generosità. E a noi piacciono questi aspetti. Lui aveva una grande umiltà. Riscriveva di continuo, i suoi racconti non erano mai finiti. Il suo è un messaggio di fatica e di umiltà”.
(1 aprile 2019)
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