di Ingrid Atzei
Sono le 4 del mattino e sul comodino, nel pallido chiaroscuro della mia imposta sempre aperta sull’intorno, intravedo il rosso acceso della copertina dell’ultimo libro della pila che c’è poggiata sopra, così mi metto a leggere. C’aggiungo anche un po’ di musica, che con la lettura ci sta sempre benissimo. Stavolta, mi sento ispirata da Claude Debussy; perciò… La mer che è indefinita e fluida come l’argomento che sto affrontando.
Ultimamente, forse complici i lutti che si sono susseguiti nel breve periodo scorso, ho ripreso in mano un volume che già lessi qualche anno fa. S’intitola Alchimie dell’anima, di Giorgio Baglivi. Il tema principale è l’immortalità. Si tratta di un volume denso denso d’informazioni, rimandi, richiami, fonti e spunti tratti da differenti discipline: dalla filosofia alla geometria, dalla psicanalisi alla fisica, dalla mitologia alla storia.
L’autore è accattivante nella propria trattazione; ambizioso, coinvolgente, originale, sicuro di sé al punto che si fatica ad aprire un varco tra i suoi ragionamenti per fermarsi e dire: “Aspetta un attimo, fammici riflettere sopra”.
Anche perché, personalmente, non concordo con Baglivi sul significato dei nuraghi come dimora dell’anima, né sono sicura di condividere il suo punto di vista a proposito di altri edifici megalitico-ciclopici come le piramidi e le ziqqurat.
Cionondimeno, non mi dispiace, in linea di principio, la suggestione di un’anima impietrata nei menhir, i quali, nella loro geometria ascendente proiettavano/proiettano senz’altro ombre lunghe pari a quelle di enormi esseri umani – corazze inscalfibili dallo scorrere del tempo così come dall’inclemenza del clima – e, altresì, forme vive fintanto che sole e luna potevano/possono disegnarne i contorni sull’intorno terreno in maniera precisa e differente in base al momento del giorno e della notte. Ma, considerazioni personali a parte, tornando all’anima impietrata, sono interessanti le parole dell’autore sulla ricerca dell’immortalità.
«L’anima del trapassato»,scrive,«era considerata un’entità reale, non corporea, tuttavia bisognosa di corporeità o, per meglio dire, di materialità. […] L’idea di dover edificare per trasmutare l’anima, cioè di far qualcosa d’importante per lei, di sostenerla nel momento del passaggio finale nella morte, di darle una nuova dimora e di garantirle il cibo eterno, è il lascito più cospicuo degli antichi popoli megalitico-ciclopici».
In pratica, dalla prospettiva dell’autore: «L’al di là degli antichi era un luogo concreto, molto prossimo al mondo reale e in qualche modo persino ispezionabile, anche se solo dagli specialisti del sacro».
Ora, è indubbio che, da sempre, l’essere umano abbia dovuto confrontare la propria limitatezza corporale con un’immateriale immortalità. Siamo fatti della stessa sostanza del mondo e non dei sogni, argomenta ancora Baglivi, in questo incardinando sul tema dell’immortalità quello del tempo (Kronos), della vecchiaia tutta e, più in particolare, del «tempo ultimo», come lo definisce Gabriella Caramore nel suo volume recentemente uscito per i tipi di Garzanti dal titolo L’età grande. Riflessioni sulla vecchiaia.
Un volume toccante, poetico e… artistico, scritto da una donna che, prossima alla soglia degli ottant’anni, s’interroga sulla partitura della vita che suona il silenzio dei ricordi e l’incedere frastornante di un presente che va ridefinito perché, nel fermarsi, si allarga e si muove in maniera diversa rispetto al passato. Personalmente, se penso all’ultimo atto della vita, m’immagino che proverò la stessa emozione che suscitano partiture famose come la quinta sinfonia di Beethoven, Il destino bussa alla porta, o la Toccata e fuga di Bach. Entrambe, diciamocelo, rendono bene l’idea del trovarsi sorpresi e senza scampo.
La domanda che mi pongo è: perché la morte dovrebbe essere una sorpresa? Come esseri mondani abbiamo un countdown in corso che parte dal primo vagito.[1] In passato la spiritualità ci consentiva di affrontare più serenamente l’idea del punto finale (o «muro opaco» come troviamo scritto nel volume della Caramore) ancorando ad esso l’idea di liberazione da ciò che Platone definiva sema/soma, ovvero carcere/corpo, dal quale l’anima doveva fuggire. Oggi, che ci siamo fatti più materialisti, più tecnologici, più concreti, più pratici, insomma meno attendisti della fine[2], abbiamo paura. Una paura talmente fottuta che ci sottoporremmo a qualunque ricatto pur di non avvertire, fosse solo remotamente, il fiato sul collo del «Tristo Mietitore», come lo appella Yuval Noah Harari in Homo deus.
D’altra parte, inquadrare il problema della morte dal punto di vista della linea del tempo, che non tiene conto del prima (per esempio, la reincarnazione) e del dopo (ad esempio, la trasvolata dell’anima verso un dove da identificare e che, generalmente, collochiamo in un imprecisato oltre la volta celeste o in un altrettanto imprecisato infero),[3] conduce a considerare la vita come una cavità tra un punto d’inizio e uno di fine: dell’esistenza umana sono importanti il momento della nascita (come, dove, quando, chi si ha attorno, da chi si discende eccetera) e quello della fine (come, dove, quando, chi si ha attorno, chi si lascia eccetera). Lo trovo ruvido. Cionondimeno, c’è una corrente di pensiero, quella transumanista, che ritiene che la vita sia priva di senso nonostante l’affanno che noi esseri umani mettiamo nel ricercargliene e riconoscergliene uno[4]. Ecco, allora, che bisogna volgere lo sguardo alla biomedicina e all’ingegnerizzazione umana che possono renderci divini, cioè immortali.
In pratica, se l’anima della quale ci parla il volume del Baglivi abbandona il corpo al momento del trapasso per insediarsi in un altrove terreno, materiale, potente, ben visibile e riconoscibile che ne costituirà la corazza inaggredibile, l’anima nell’ottica transumanista dovrebbe restare intrappolata da qualche parte e risvegliarsi in un corpo mortale (in qualunque modo ci rifinisca dentro).
I pionieri della immortalità parlano, a tal proposito, di vetrificazione; pratica della quale, ad oggi, non conosciamo gli esiti. Gli effetti sono incerti, quantomeno. Mary Shelley insegna che potremmo trovarci ad avere a che fare con novelli Frankenstein, con degli zombie, o con cadaveri nei quali s’incarna qualche cosa di “alieno”.
Con queste riflessioni che mi arrovellano i pensieri, ripongo il libro di Giorgio Baglivi sul comodino e mi accingo ad affrontare una nuova giornata, della quale ho un’unica certezza: avrà una fine, esattamente come ha avuto un inizio.
[1] A tal proposito può essere interessante approfondire la Teoria dell’entropia genetica del genetista John Sanford secondo la quale l’accumularsi nel tempo di mutazioni genetiche starebbe causando una degenerazione – o invecchiamento – del genoma.
[2] A tal proposito mi domando: immortale dev’essere il corpo o l’anima?
[3] I popoli antichi, nell’ottica di Baglivi, collocavano l’aldilà, piuttosto, tra cielo e terra, di qui il senso delle costruzioni ciclopiche che si elevano dal terreno verso l’alto o dal terreno verso le profondità terrestri.
[4] Proprio del pensiero di Harari, uno dei rappresentanti della corrente, è che, come specie, cerchiamo un senso alla vita che, tuttavia, senso non ha. Perciò siamo spinti a cercare oltre essa qualcosa che rimane.
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