di Caterina Corucci
…Una spada forgiata dal fuoco, mai strappata al grembo della terra, e perciò doppiamente sacra…
Toccai la pagina ruvida, scurita, densa di passato. Richiusi il libro e guardai la copertina sciupata, Excalibur in primo piano. Gli scatoloni di libri erano quasi pronti per affrontare l’ennesimo viaggio, già colmi, che ad ogni trasloco i volumi sono sempre di più. Pensai che avrei dovuto lasciarne andare qualcuno ma, di sicuro, non quello che avevo in mano.
Ero una ragazzina quando lessi “Le nebbie di Avalon”, e sebbene la mia memoria sia sempre più difettosa, questa storia non l’ho dimenticata. Ispirato al ciclo bretone di Chrétien de Troyes, parla di re Artù, di Merlino, Morgana, Ginevra e dei cavalieri. Religione e mito, leggenda che si appiglia alla storia, personaggi fantastici ma nello stesso tempo profondamente umani e credibili. E parla di Excalibur, la spada che la Dama del Lago donò ad Artù, che in molte narrazioni viene identificata con la spada nella roccia, ma che qui viene presentata come un’altra.
Pare infatti (parliamo di leggenda) che la prima spada del mitico re, quella che lui estrasse dalla roccia, si fosse rotta durante una battaglia e che soltanto dopo egli entrò in possesso di Excalibur.
Pochi giorni fa, a casina nuova, quel libro sgualcito ha trovato il suo posto nella libreria, fra “Cocomeri e Principesse” di Matelda Novelli e “L’impero del sogno” di Vanni Santoni (perché no?). E oggi, cercando di evadere come spesso faccio, mi sono ritrovata nelle campagne intorno a Siena, davanti all’indicazione per Chiusdino.
Punto verso l’Abbazia di San Galgano. Lì accanto, nella rotonda di Montesiepi, c’è quella che viene identificata come “la vera spada nella roccia”.
È tardi, calcolo di avere poco più di un’ora di luce, quando dalla strada principale vedo sollevarsi dal prato la grande abbazia. Si staglia fra il verde e l’azzurro ed è di una suggestione incredibile. Imponente ma fragilissima, così come ci appare oggi senza il tetto che è crollato nel 1700 a causa di un fulmine.
Da fuori, ma anche da dentro, è piena di cielo e di silenzio.
Fu costruita nel 1218 dai monaci cistercensi accanto alla Rotonda di Montesiepi, l’eremo di San Galgano.
Galgano Guidotti fu un cavaliere di famiglia agiata. Condusse una vita dissoluta finché, al rientro dalla guerra, ebbe la visione di San Michele Arcangelo; da quel momento decise di abbandonare le armi per dedicarsi completamente alla preghiera e alla penitenza. Conficcò la sua spada nella roccia, compiendo così il suo primo miracolo, e in quel luogo si ritirò fino alla sua morte, nel 1181. Sulla sua capanna è stata costruita la piccola chiesa che è la Rotonda di Montesiepi.
Appena fuori dall’Abbazia trovo l’indicazione. C’è ancora luce. Mi arrampico letteralmente per il viottolo tutto sassi, buche e radici in mezzo agli arbusti, lungo la salita che porta alla Rotonda.
Quando arrivo, all’interno della piccola chiesa non c’è più nessun visitatore eppure, entrando, mi sembra di disturbare. La spada è lì per terra, avvinghiata dalla roccia chiara, al centro della chiesa piccolissima che le è stata costruita intorno. Dal terreno sporge solo l’elsa che rappresentò la prima croce della comunità eremitica composta da San Galgano e da dodici discepoli. La guardo e mi chiedo se sia originale. Poi scoprirò che qualche anno fa alcuni studiosi la analizzarono e confermarono che si tratta di un’arma risalente a quel periodo.
Ma davvero, mi chiedo, questa spada può aver ispirato le vicende di Re Artù? Come si è arrivati dalle colline toscane alla Cornovaglia?
Il ciclo relativo ai Cavalieri della Tavola Rotonda nacque in Francia nel XII secolo, forse grazie ai racconti dei cantastorie e dei novellieri che frequentavano le corti, e che dovevano conoscere il miracolo della spada nella roccia di Montesiepi.
Il mito di Re Artù invece ha origini anglosassoni e celtiche ed è molto più antico. Qui si parla del leggendario sovrano, ma senza affiancarlo alla spada nella roccia.
All’interno del ciclo letterario cosiddetto “bretone”, Chrétien de Troyes (1135-1188) nel “Perceval”, narra di una spada che apparteneva a un cavaliere di nome Galvano. Era miracolosa, però non era conficcata da nessuna parte.
La prima menzione di una “spada nella roccia” è di solo pochi anni più tardi ed è di Robert de Boron (fine 1100-inizio 1200), poeta e chierico francese originario del villaggio di Boron, nella sua opera intitolata “Merlin” che pare sia stata scritta intorno al 1190, nove anni dopo la morte di San Galgano.
In realtà di spade nella roccia ne esistono diverse, nel mondo, come la Durlindana di Rocamadour che venne donata da Carlo Magno a Orlando, o le tre spade imponenti ad Hafrsfjord, in Norvegia.
Ma solo fra quella toscana e la saga di Artù ci sono davvero tante analogie: innanzitutto la contemporaneità, poi i cavalieri che sono dodici come i discepoli di San Galgano, la Tavola Rotonda e la Rotonda di Montesiepi, un cavaliere di nome Galvano e soprattutto il fatto che la sua prima apparizione nella letteratura francese è posteriore ai fatti di Chiusdino.
Insomma, torno verso casa con un po’ di confusione in testa, come può capitare quando ci si immerge in leggende che si mescolano alla storia. Soprattutto mi intriga un pensiero, che per quante siano le analogie fra le due armi, la spada nella roccia di Artù rappresenta l’inizio di una vita da condottiero e di battaglie, mentre quella di San Galgano rappresenta esattamente il contrario, la rinuncia alla guerra e a una vita corrotta per fare qualcosa di diverso, opposto. In ogni caso, la spada nella roccia, che sia estratta o conficcata, significa cambiamento.
L’atto di conficcare una spada in una pietra non è appendere i guantoni al chiodo. Ha il sapore di una rinuncia attiva, ci vuole forza per vincere la pietra, una forza da cui scaturisce l’energia per cambiare.
E una volta che la lama è conficcata, non si torna indietro.
Forse non è un caso che io mi sia imbattuta in questa storia proprio oggi, dopo un grande cambiamento, dopo un nuovo trasloco.
Come se avessi piantato, anch’io, la mia spada nella roccia.
Be First to Comment