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ep.3 Pescatore di rane

Introduzione di Ivan Nannini

Eccoci qua, un altro personaggio, un’altra storia, un’altra vita. Certo è che le tempeste di rane non lasciano il tempo che trovano, i danni si contano a centinaia. Ma come per tutte le cose del mondo, sia per quelle buone che per quelle cattive, c’è chi ci scapita e chi ci guadagna. Non che Nello ci abbia ricavato granché, a lui le rane hanno donato soltanto un lavoro, sicuramente non il lavoro ideale, ma comunque la pagnotta a casa ce la porta, come si suol dire… e la sua è una posizione ideale, quella di chi vede chi lo osserva; o forse meglio dire: quella di chi osserva chi lo vede. L’apparenza inganna amici, banale ma vero.

Buona lettura con il terzo episodio della nostra serie, rappresentato in copertina da un disegno di Rosario Gulli.

EPISODIO TRE: PESCATORE DI RANE

di Luigi Pratesi

(Nello)

Corpo di mille bombe.

Niente di meglio da fare, ecco il problema. A bocca aperta, come tanti lucci, a fissare me. Lo so che pensano, che credono: “mangiarane”, “sciacallo”, “vecchio pazzo”.

Forse questa è l’unica cosa vera. Me ne sto per conto mio e tiro innanzi per il mio viottolino. Lascio a loro tutto il resto. Se mi vogliono, io sono qui dalle quattro del mattino, con l’angoscia in petto e un po’ di vino in corpo, la voglia di bestemmiare. Proprio come Guccini, quando ero piccolo, alla radio.

Mi ricordo mio nonno, anche lui aveva le mani nodose, dita grosse come le mie. Lo guardavo prendere in mano una pera e lo invidiavo. C’era una premura strana in quel gesto, una premura in contrasto con la forza, il sudore e la pena che quelle mani mostravano. Una delicatezza inaspettata anche nel modo in cui ne saggiava il grado di maturazione. C’era la fame, la privazione, c’era l’amore di chi quella pera non l’ha colta, ma ha raccolto sempre il frutto del proprio lavoro e sa che anche quello degli altri costa fatica.

Parlo davvero come un vecchio. Ma quello che vorrei è solo che la gente non mi fissasse pensando “l’uomo che guida l’aspira-rane”. Che sono io, un lavoro? Sono la mia tuta grigia?

Vecchio e stolto. Come se non avessi mai vissuto, come se non sapessi che la terra gira sempre dalla solita parte. Pretendo e non do. Non do nulla. Non ci riesco con loro. Parlano, parlano e non dicono niente. Non a me, almeno. Io ho parole di mare che si porta via il vento. Loro hanno parole di modernità, invece. Li invidio e li temo. Mi portano via la vita, con le loro idee, mi tolgono un posto nel mondo. Eppure li vedo affannarsi come una gatta a cui hanno appena portato via i cuccioli.

C’era un uomo, lì, sulla panchina, questa mattina. Io ero fuori a pulire le strade. Rane dappertutto. Lui se ne stava sereno, fumava una sigaretta. Aveva le mani affusolate. Sembrava in pace con se stesso. L’ho invidiato. Ma poi mi sono detto: faresti a cambio?

Mi sono immaginato su quella panchina, a non fare nulla. Perché mai dovrei essere lì? Non sono riuscito a rispondermi. Perché allora avrei voluto essere lui?

Io sono nato pescatore di tonni e sono finito a fare lo spazzino di rane morte. Che domande mai mi faccio? Arrivato ad un certo punto, però, uno tira le somme. Due più due fa sempre quattro. Ma quello che fanno tutti i giorni della mia vita sommati tra loro proprio non lo so.

Me ne vado a pranzo al pub ogni giorno. Oggi non fa eccezione. Questo dice qualcosa di me. Una pinta di birra scura, il sapore amaro in bocca oltre che sulla pelle. Mi sento al sicuro.

Lo chiamano FN314 questo posto. Mi ricordo quando le città avevano nomi seri, che volevano dire qualcosa. Oggi siamo numeri, noi come i posti in cui viviamo. La cosa che non mi va giù, quasi come le noccioline che mi servono in questo pub insieme al salmone, è che nessuno sembra farci caso. FN314. Che razza di nome è? Se avessi avuto un figlio come avrei dovuto chiamarlo, con le iniziali del nome mio e di mia moglie e il numero di serie? NPFF1. Come le barche che aveva mio padre: Amanda 1, Amanda 2, Amanda 3. Le barche diventavano via via più grandi, mia madre invece rimpiccioliva. Proprio come sto iniziando a fare io.

“Ciao Nello. Lavoro extra stamattina, eh?”

“Il solito.”

“Una grandinata di rane così non si vedeva da un po’.”

Perché la gente non mi lascia in pace? Sghignazza, si prende gioco di me, del matto che aspira le rane. “Dammi un altro po’ di patate, Mik. Per favore.”

Il barista mi sta simpatico. Sta sulle sue, ma mi capisce. Niente orecchini, niente tatuaggi, uno sguardo che promette profondità oceaniche. Proprio come nella pesca, ogni tanto mi piace gettare l’amo. A volte abbocchiamo a vicenda. Scintille di vita su questo pianeta.

Non mi piace la vita nel Distretto 13, ma credo che non mi piacerebbe neppure quella nel Distretto 12, o nell’11 o persino nell’1. Proprio come non mi piace Gerardo, il rappresentante della Collettività. Ma è pur sempre il capo del mio capo.

“Non c’è bisogno che tu mi faccia posto, Nello. Ho il tavolo prenotato, lo sai. Non crederai mica che questa folla mi spaventi?”

No, maledizione, ma spaventa me.

Guardo Chiara, seduta davanti alla finestra come sempre, e rivedo mia moglie. Era davvero bella. Il giorno in cui il Comune mi assunse per guidare quella macchina infernale lei aprì una bottiglia di champagne. “Niente più cavalloni, niente più tempeste. Da oggi niente più preoccupazioni” mi disse.

Si è ammalata meno di un mese dopo. Le sue preoccupazioni le ho ereditate io. “Mi mancheranno la salsedine tra i capelli, il vento in faccia e le ore di solitudine.” Le dissi allora. Lei mi guardò storto.

“La solitudine? Vuoi dire che preferisci stare in mare piuttosto che vicino a me?”

L’abbracciai, che altro potevo fare? La strinsi, le carezzai i capelli che stavano cominciando a imbiancarsi. Le promisi di rimanerle accanto senza dover aprire bocca. Un’altra promessa che ho mantenuto.

Ripenso alla macchina Kapler, quella che guido: l’aspira-rane, insomma. Ormai tutti la chiamano così. Fa un rumore infernale, per questo forse ho imparato ad apprezzarla. Quando sono là sopra non c’è spazio per i pensieri, non c’è silenzio. Non più, per me. Raccolgo quei corpi offesi, agonizzanti, corrotti e non provo nulla. Solo rumore di fondo. Tanto rumore. Interferenze. La mia medicina personale, ormai.

A volte mi sorprendo a desiderare che piovano rane. Nonostante i danni che provocano, nonostante tutto quello che so. Nonostante la gente non si sia mai abituata del tutto. Anzi, forse per quello, per l’umanità che affiora in loro, come un pesce morto che sale a galla.

La cerco sempre, non la trovo quasi mai. Quasi in nessuno. Ci stiamo prosciugando, come un grande mare salato lasciato ad essiccare. E io mi sento un pescatore di rane.

Chiara si è voltata e mi ha sorriso. La mia sembra più una smorfia, invece, ma lei non ci fa caso tanta è l’abitudine. Prendo le patate che Mik mi porge. Non c’è grazia in quel gesto, non c’è fatica, né consapevolezza. Le sue sono mani svelte e lisce. Mani di cui non ti puoi fidare. Ma è pur sempre un bravo ragazzo. Se solo sapesse quello che so io. Se solo a quell’amo avesse abboccato un po’ di più. Ho speranza che prima o poi lo faccia.

Mentre soffio sulla mia patata, mi guardo intorno. Pensino di me ciò che vogliono. Se solo sapessero la verità…

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