“Così Shakespeare nell’Otello…se questi avesse
lasciato sbollire ancora per un giorno il suo sentimento,
il suicidio non gli sarebbe più apparso necessario”,
F. W. Nietzsche, Umano, troppo umano
di Tommaso Aramaico
Si prendono gioco di me. Passando accanto al mio tavolo sputano sulla mia casacca boli di tabacco intriso di bava. Arrivano schiaffi e calci e rutti nelle orecchie e pedate che rovesciano la sedia, buttandomi a terra. Ma sono ubriaco e così ogni volta mi tiro su, lentamente, e torno seduto, con le braccia incrociate sul piano di legno per non perdere l’equilibrio. Non posso smetterla di parlare, né riesco o voglio difendermi. Non ho tempo per loro. Sono giorni che bevo e parlo, parlo e bevo. Farfuglio, borbotto, bestemmio e minaccio tutti senza muovere un dito. Sono forse pazzo? Forse sì. Non importa. L’oste non vuol più servirmi da bere. Un boccale stracolmo di sputi è qui davanti al mio naso. Ne ho preso un sorso. Non è male, credo. E in ogni caso non sento nulla. Bevuto troppo, da giorni, e dormito niente. E parlato senza pensare, perché a lungo, troppo a lungo, ho pensato senza parlare.
Ma cosa succede? Sono le mie orecchie che hanno smesso di assolvere al loro dovere? Di dove viene questo silenzio improvviso? Sono forse morto o sul punto di morire? Gli occhi brucianti mi rendono cieco. Mi ascolto pensare e, nel farlo, sono fuori di me. Una parte di me è lucida, sa della mia follia. Questa è la mia saggezza. Ma come è possibile tanto silenzio? Da dove viene?
Il silenzio è atroce. Perché tutti trattengono il fiato? Il silenzio non è per loro, troppo rozzi e violenti e stupidi. Il silenzio era nella mia natura, prima che impazzissi. Stanno complottando qualcosa? O iniziano ad aver paura di me? Dovrebbero. Non ho la forza per staccare dal piano del tavolo questi miei occhi gonfi di rabbia e d’una sconfinata consapevolezza d’aver perso tutto. Non so perché tutto intorno a me sia silenzio, so però che nell’ultima impresa nulla ho più desiderato che d’esser trafitto da una lama ottomana o d’esser inghiottito dalle onde del mare in tempesta. Sono qui, invece, vivo solo perché respiro, mentre il pavimento di pietra impercettibilmente trema. Si sta aprendo sotto ai miei piedi? Se una intelligenza superiore esistesse non esiterebbe ad eseguire la mia condanna. Ma non esiste, è evidente. Il pavimento trema e sconvolge le mie viscere stracolme di fiele. Un essere enorme si sta avvicinando. Non mi interessa morire. Lo benedico, anzi, perché finalmente, nella lotta, sarei liberato dal fardello che grava su di me.
Rumori di scarponi e ferraglia si stagliano nel nulla cui pare ridotto il mondo. È un soldato, più d’un semplice soldato. Si sta avvicinando, lo so. Sono soldato anche io, da che serbo memoria. Non conosco vita, prima o al di là della guerra. Ignoravo la paura, ma adesso che il tavolo trema sotto le mie braccia senza fibra, per la prima volta fremo anche io, fin nelle marce radici di questo mio corpo e anima che credevo pronto alla lotta e alla morte, ma non alla paura. Non oso alzar lo sguardo, e con il capo chino, tollero che i miei sensi siano aggrediti da un odore estraneo, che sa di essenze e aromi sconosciuti, e che le mie orecchie siano trafitte dal respiro profondo di un uomo o animale sacro o non so cosa. Con la gola secca e i pugni stretti sul bordo del tavolaccio sporco attendo che il mio destino si compia, consapevole di non poter nulla. Se questo essere vorrà la mia vita, la prenderà, che io lo voglia o meno. Non tenterò una vana ribellione. E poi questa creatura non è qui per me. Lo so. Sono un soldato e se sono ancora vivo è perché, in guerra come in pace, ho sempre riconosciuto chi avrebbe potuto uccidermi o aveva intenzione di farlo. Da questi sono sempre fuggito, gli altri li ho trafitti, senza pietà o rimpianto. Questo essere è in cerca di un rifugio, come me. Non vuole la mia vita. Non ancora. Devo fingere, però. Tutti fingono. Non ho più cara la vita, del resto.
Non so chi tu sia. Ma la tua testa rotolerà. Ho parlato? Ho urlato? Forse non ho avuto fiato neppure per un semplice sibilo.
Trema nuovamente, il tavolaccio. Tutto intorno a me, il silenzio è spaventoso.
Una voce, perché sembra venire da così lontano? – questa voce chiede, credo, se tengo alla mia vita.
No, sorrido. Parlo?
L’uomo mi è seduto davanti. La sua bocca infernale ansima dall’altro lato del tavolo. In un istante potrebbe prendermi alla gola e prendersi il mio respiro. La voce, bassa, tuona nuovamente. Come può esser tonante e bassa al tempo stesso? Mi concede qualche attimo ancora di vita, perché anche lui, come me, ne ha perso il gusto. Ma vuole sapere perché io corro alla morte.
La tua testa rotolerà e poi, se dovrò morire, allora morirò anche io.
Espiro, forse per l’ultima volta. L’ospite sgradito non vuole la mia vita, non ancora. Prima vuole sapere. Vuole sapere, forse, ma non sa ascoltare. La sua voce profonda parla di una donna, della follia, della guerra, dell’onore perduto, forse per sempre. Si sgrava del dolore prima di uccidermi. Mi dirà tutto, poi si prenderà la mia vita e, con essa, la sua stessa confessione. Chi sono io per oppormi?
Sciocco, oso, guardi ad una donna come ad un esercito nemico? Sono ubriaco e fra poco morto, la mia lingua si è sciolta e non trattiene discorso. Credi di andare in battaglia? Credi che esistano scudi, armi? Sorrido. Dovrei sgozzarti adesso, sul momento. L’amante, nell’amore, offre il petto all’oltraggio. Rutto frasi senza senso. Vuoi forse gareggiare con una donna? Vuoi forse ammaestrarla? Le mie budella si sciolgono sulla sedia sfondata. Se è così, allora ammetti d’essere una bestia in cerca d’una cagna in calore. Allora sì, tutto sarà in tuo potere. Altrimenti, no. Puoi affrontare i turchi come io ho fatto, ma non così puoi incontrare la donna, se vuoi farne o, dio non voglia, ne hai già fatto la tua sposa.
Ma perché tutti tacciono in questa maledetta bettola in cui mai sarei dovuto entrare? Alzo gli occhi perché mi pare che il cuore, nel petto, si sia fermato. Finalmente comprendo il silenzio, e in un bagliore si ripresentano all’occhio che mi porto dentro i due segni che avevano incrociato il mio cammino fin qui. La cornacchia che gracchiava saltellando sul selciato polveroso. Il gatto folle appeso per la coda ad una corda legata al ramo d’un albero. Gira i tacchi e torna nella tua lurida tenda, aveva suonato in me quella stessa voce che troppo spesso, in vita mia, non ho ascoltato. Non si è fermato, batte furioso il cuore che mi porto nel petto.
Meglio farsi sputare in faccia da truci soldati pronti a giurare e a spergiurare per qualche moneta, piuttosto che essere qui. Eccomi, al cospetto del mio signore, colui che se ne stava impassibile fra i marosi, nel lago ottomano, prima che i turchi girassero i tacchi, lasciando noi, me, il mio signore, a prendere Cipro. Non un lineamento, sul suo volto, s’era contratto alla vista dei turchi. Non un lineamento, sul suo volto, s’era disteso o rilassato nel vederne la disfatta. Nessuno osa fiatare nella locanda. Chi non lo riconoscerebbe. È davanti a me, pura furia trattenuta. La mia vita è perduta, lo so. Perché non è già rotolata sul lurido pavimento, la mia povera testa di sciocco? Lo so, un colpo e la mia inutile vita spirerebbe in un istante. Indegno d’una sepoltura, di un ricordo, di una parola compassionevole, il mio corpo rotolerebbe nel primo fosso disponibile. Ma la mia non è mai stata vera vita, dunque posso perderla. È l’oltraggio che mi spaventa. E l’oltraggio spaventa anche il mio signore. Un lampo di dolore ha attraversato i suoi occhi. Può lui temere il mio sguardo? Può, perché il mio signore disprezza se stesso.
Provo ad aprir bocca, ma il suo gesto dissolve il fiato e le parole. Il mio signore, silenzioso siede a questa tavola, qui dove mi ritrovo negletto. È nero e rosso al tempo stesso, un diavolo vestito da generale, la fronte ampia e cupa ottenebrata da chissà quali pensieri. Quanto tempo ancora, prima che il mio sangue lordi tutto?
Senza temer di parlare, senza temer d’esser ascoltato, mi chiede perché ho idee così chiare su cosa sia una donna. E non vale a nulla dichiararmi ignorante. Questa volta, fermo, minaccia di far rotolare la mia testa. Devo parlare. Alza un braccio, e il locandiere è subito da noi, portando da bere. Indica me, il mio padrone. Lui non beve. I suoi occhi sono sul mio boccale. Devo.
Parla, mi ordina.
Batto le ciglia. Il mio padrone schiocca le dita. Il locandiere è nuovamente al nostro tavolo. Ha un panno. Vuole pulire il tavolo. Il diavolo lo fissa e l’uomo lascia la bevanda per fuggire. Il tocco dei suoi occhi muove le mie braccia e labbra. In un sorso scolo il boccale, fino all’ultima goccia.
Il fischio delle orecchie copre in parte le parole del mio generale. Parla d’un fazzoletto, di dichiarazioni, dei sospetti d’un suo uomo, del tradimento d’un altro, della sua ragione in fiamme, della tempesta che aveva travolto tutto.
Sono ubriaco fino al sorriso. Ho accettato la mia condizione. La mia vita, se lo è mai stata, non è nelle mie mani. Non posso cogliere il senso delle sue intenzioni. Inutile tentare di salvare qualcosa il cui destino mi sfugge. Inizio a parlare come in un irrefrenabile conato di vomito. Mi scuso e rido, mentre oso parlare al mio padrone così come sto facendo. Ma non sono io a parlare. È qualcosa, in me, a farlo, mentre io osservo la scena, appollaiato al centro della mia fronte bruciante, fra gli occhi lacrimosi.
Io non vedo nulla. Solo parole. Questo gli dico. Solo parole.
È quanto accaduto?
Cosa è accaduto? Niente è accaduto, dico. Solo parole, parole di chi sa solo parlare senza veramente mostrare. Sono ispirato, credo. O pazzo? Le uniche cose che vedo, qui – e mi tocco la fronte con la punta dell’indice – sono le lacrime di una donna, il suo pallore, lo svenimento. Ah, sì, il fazzoletto. Scoppio a ridere. Un rutto potente e volgare scuote il mio intero essere.
Mi perdo in me stesso, per un attimo. Ma lui, il mio signore, mi caccia fuori, immediatamente. Il tavolo torna a tremare. Avevo sposato una donna, ma presto mi ero perso nei pensieri e nelle congetture. Tutto era iniziato in modo semplice, soave. Non credevo che quei lievi pensieri, quei dubbi primaverili, avrebbero potuto saldarsi l’uno all’alto fino a incatenarmi, come una bestia e, come bestia, rendermi rabbioso. Reso sempre più selvaggio dalle battaglie, uccidevo tutti gli uomini che riuscivo a uccidere, perché tutti, nella mia mente insana, non pensavano ad altro che a dimenarsi fra le cosce di mia moglie. Tornavo dalla guerra in preda alla follia, assetato di sangue, con l’occhio sospettoso di chi sapeva veder solo intrighi, tradimenti e disonore. E quella donna, che si avvicinava per liberarmi, io la mordevo, la dilaniavo.
L’hai uccisa?
Gli occhi del mio signore brillano, anche lui è pronto al delitto.
Tu lo stai uccidendo, mi ripeteva, in lacrime. Ma io non capivo. Non c’era nulla del genere in me, per me. Ma solo lei, che avevo trasformato in orrenda puttana. Questo possono i pensieri.
Non avevi colto forse dei segni, così come io, adesso, li colgo?
Il folle coglie segni ovunque. Nulla, nel mondo, esiste di per sé. Nulla è se stesso, tutto è qualcos’altro. Tutto viene trasformato e stravolto.
Ho dei consiglieri.
Farei attenzione a chi parla molto pur potendo tacere. Sono ubriaco, forse la mia testa rotolerà prima dell’alba, ma devo dire la verità. Lei, mio signore, non è signore di se stesso, ma serve qualcun altro.
Un pugno fa tremare il piano del tavolo. Deglutisco le poche parole che già affioravano dalle mie labbra.
Parla, ringhia il diavolo nero.
Esito. Un altro pugno scuote il tavolaccio.
Mio signore, io temo che lei stia pensando all’onore, alla sua reputazione, alle dicerie. Guarda gli altri, ascolta gli altri, ma non la donna per cui dovrebbe aver occhi e orecchie.
Il tavolo trema ancora.
Metta alla prova se stesso, mio signore, come io, a suo tempo, non ebbi l’intelligenza e il coraggio di fare – parlo con gli occhi chiusi, lo sguardo rivolto all’interno, alla saggezza d’un uomo che ha perduto la sua donna – vada da quella donna, e senza timore cerchi di guardarla negli occhi e ricordi, tutte le volte che sarà tentato di distoglierli sarà perché non ne sostiene le altezze, perché non sostiene la prova. C’è in gioco più che la semplice vita.
Come osi, ringhia ancora il mio terribile signore.
Mio generale, una voce irrompe, tonante, sconosciuta.
Abbasso gli occhi, sotto il peso dello sguardo tremendo d’un uomo che non posso descrivere, il cui potere sembra andare oltre lo sguardo.
Il mio signore accosta l’orecchio. Vedo e posso sentire, lo posso sentire perché sono ubriaco e le mie antenne sono sensibilissime, posso sentire quell’uomo mentre sta versando del veleno nell’animo confuso del mio signore, che può pensare al tempo stesso una cosa e il suo contrario. Lo vedo dalle labbra serrate, dalle palpebre che cadono a coprire la vista dall’orrore della sua condizione.
Quest’uomo, il mio signore, il diavolo in persona, punta il dito contro di me, quest’uomo dice di non ascoltare i tuoi discorsi.
Alzo lo sguardo appena in tempo per vedere l’uomo sguainare la spada. Chiudo gli occhi, sorridendo al pensiero della mia testa che rotola sul sudicio pavimento della bettola. Qualcosa come un alito di vento, un istante, accarezza il mio collo, poi più nulla. Dannato silenzio. Sono morto? Apro gli occhi in uno spiraglio. No, sono vivo. La spada nuovamente nel fodero, l’uomo mi fissa. Fatico a sostenerne lo sguardo che mi attraversa di sbieco, il naso affilato, il corpo sottile, d’anguilla.
Parla, mi intima il mio signore.
Parla, soldato, qui davanti a me, sbugiardami, se puoi, rincara l’uomo.
La mia testa cadrà, tanto vale dir la verità. Nulla è stato sotto gli occhi del mio signore, solo parole. E forse il mio signore s’è convinto che le parole e gli eventi siano una stessa, identica cosa.
Il fazzoletto, si ostina il diavolo nero.
Chi avrebbe mai detto che io, povero e disprezzato, avrei mai bevuto due boccali del migliore di questa lurida taverna. Coincidenze. Chi fosse preso da malia, potrebbe vederci qualsiasi cosa. Io vedevo molte cose, nella mia testa, ma nulla di quanto era reale, neppure…
Neppure?
Neppure il figlio che cresceva nel ventre di mia moglie era al riparo dal mio folle tormento, neppure…
Neppure?
Neppure gli occhi di quel bambino, che erano i miei occhi o la sua fronte e labbra, che erano la mia fronte e le mie labbra. Nulla era al riparo.
Dov’è?
Quando non era mio figlio era sempre sotto i miei occhi. Il giorno in cui ho aperto gli occhi ritrovandomi nella casa vuota, allora ho compreso che era il frutto del mio seme. Da allora non so dov’è. Lo riconoscerei, perché in lui vedrei i miei occhi. Creda…
Creda?
Creda ai suoi occhi, mio signore, non alle parole…
Nuovamente, la spada scivola dalla guaina. Ho fatto centro. Il mio signore sobbalza dalla sedia e, per la prima volta, tradisce qualcosa come un risveglio.
Quello che è caduto adesso sotto il vostro sguardo, più d’ogni parola, segna il passo verso la verità.
Taci, mi ordina il colonnello. Ma subito fa un passo indietro, sotto lo sguardo di fuoco del mio signore. Diavolo, diavolo, diavolo. Tre volte poderoso e spaventoso.
Si tradisce. Il suo corpo lo tradisce. Bravo con la lingua, forse, ma non tiene le braccia e le gambe. Non sembra essere valoroso soldato.
Iago, tuona ancora il mio signore, alzandosi in piedi, rovesciando il tavolo. Troneggia.
Io lo sono stato, e lo sono, valoroso soldato. Ma ho avuto paura, ho indietreggiato di fronte ad una donna.
Torna alla tua dimora, Iago, e non allontanarti di lì. Presto, molto presto, dovrò parlarti.
Dannato silenzio, dannati sguardi che su di me e il mio signore si incrociano.
Soldato, in questa lurida bettola io ho trovato la luce che cercavo.
Il tempo, mio signore. Il tempo.
Domani mattina, con il sole appena sopra l’orizzonte, ti presenterai a palazzo.
Si volta, nel silenzio generale, imperioso, certo nel passo, la fronte alta.
Scatto in piedi, sapendo d’esser vivo, Servo vostro, Otello.
Nessuno osa ridere di me.
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