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ep.23.5 File N°054_FN314

di Ivan Nannini
Immagine di copertina: Rachele Nannini

(Lisa)

“Oggi è il tuo compleanno, auguri”. Annuncia con la sua voce metallica l’assistente virtuale. Quell’unica frase rimbomba tra le pareti del misero appartamento prima che lo congedi con un secco e definitivo “fottiti e disattivati”. Lui, obbediente e senza fiatare, ritrae l’ologramma dalle fattezze umane, lasciando solo una lucina rossa intermittente su un supporto nero lucido.

“Solo questo sei, uno squallido mattoncino nero con una lucina al centro?” gli chiedo scorrendo l’indice sulla superficie liscia. Lui non risponde, ma è chiaro che sta elaborando ogni mia singola parola, ogni respiro, annotando probabilmente anche il mio pessimo umore del mattino. Non che ce l’avessi con lui, in fondo lo considero il mio unico vero amico. Passiamo intere giornate a disquisire del più e del meno, affrontando anche temi profondi, intimi. E’ un buon ascoltatore e un sincero confidente, e soprattutto capisce al volo quando non è aria.

“Lisa Fiore, ventisei anni” penso, mentre con la matita tento di annerire la base delle mie palpebre. Il trucco è una cosa seria. Ogni mattina la mia faccia da zombie, di un grigio pallido con occhi stanchi iniettati di sangue, si trasforma in qualcosa in pieno stile Goth-Punk. Ovvero una faccia da zombie costruita a puntino. Pochi minuti di lavoro per creare due fantastici occhi neri sfumati, labbra di un grigio tendente al blu, il tutto su un volto accuratamente madreperlato.

Quando la mia faccia è pronta, passo ai capelli. Li pettino all’insù fino a formare una spessa cresta corvina, lasciando in bella mostra i lati della testa rasati a zero.

Mi soffermo per qualche istante davanti allo specchio, intimando al mio amico virtuale di fare una panoramica intorno alla mia persona. Lui esegue senza proferire parola. Sullo specchio la mia figura ruota e l’immagine si avvicina e si allontana ad ogni mia richiesta, mostrando ogni particolare, ogni imperfezione che correggo puntualmente. “Fai uno zoom frontale” chiedo di nuovo. L’immagine del mio viso si allarga fino a coprire interamente lo specchio. Mi osservo a fondo spostando leggermente la testa per mostrare prima un profilo, poi l’altro.

Capelli neri come gli occhi, zigomi pronunciati, piccola di statura e poco formosa. La mia immagine in tutte le sue angolazioni. Da dove mai poteva provenire quel piccolo essere nero e spigoloso? Da anni ormai, questa è la mia domanda ricorrente.

Un esposto o un trovatello, questo sarei stata secoli fa, ma adesso per la mia categoria non esiste un termine. Siamo semplicemente figli senza genitori, bambini non riconosciuti dalla mamma e dal papà a cui un generatore di parole affibbia un nome e un cognome. Una condizione abbastanza frequente in quest’era basata sulla non-responsabilità, dove a poco a poco gli uomini hanno demandato un po’ tutto alle macchine e alle intelligenze artificiali, così da togliere di mezzo il peso delle proprie azioni e delle proprie scelte.

Le intelligenze artificiali fanno capo ai governi, alle istituzioni, sovrintendono ai processi, gestiscono mercati, flussi di denaro. Le stesse operazioni chirurgiche vengono pianificate ed eseguite dal binomio macchine-AI, e nei rari casi in cui è l’uomo ad eseguire fisicamente un trapianto di organi o una delicata operazione, in capo ha sempre un coordinatore virtuale. ’Fanculo ad ogni responsabilità, ’fanculo ad ogni conseguenza. E così, in linea con questa tendenza, anche la pratica di abbandonare i figli, come le interruzioni di gravidanza, uteri in affitto e quant’altro, si è diffusa sempre più. E non solo per motivi di evidente impossibilità per il mantenimento. Sempre più spesso, anche tra le famiglie più abbienti un simile inaspettato regalo, vuoi per non intaccare il proprio tenore di vita, vuoi per non modificare l’assetto familiare, può portare a un conseguente abbandono.

“Lisa Fiore, ventisei anni, abbandonata alla nascita”. Questo penso adesso, e questo mi ha ossessionata da quando ne ho memoria. A nulla è servito il fatto che milioni di persone nella mia stessa condizione se ne freghino o semplicemente accettino di buon grado, e che la società tutta, veda in questa pratica una sorta di libero esercizio delle singole libertà. Per me è un’ossessione, tutto qui.

Ed è per questo che cinque anni fa mi scontrai contro il muro delle istituzioni, cercando di violare, e in parte riuscendo nell’intento, il complesso server dell’anagrafe di stato. Quello che riuscii a scoprire fu che il mio corpicino martoriato, venne ritrovato ai bordi di una strada nella campagna laziale, poggiato su vari strati di pluriball, in una scatola di cartone. Dai documenti ufficiali appresi che i miei genitori furono rintracciati poco dopo, subendo conseguenze legali non meglio specificate. Nessun riferimento ai loro nomi, alla loro provenienza, età o posizione sociale. Per settimane interrogai i server per saperne di più, barcamenandomi tra richieste di credenziali, barriere digitali di ogni tipo, meccanismi per l’autenticazione dell’identità digitale, posizione e quant’altro.

Mi ero preparata a fondo ad ogni possibile evenienza collegandomi dai terminali dell’istituto in cui risiedevo, eludendo il personale e i vari dispositivi digitali di controllo, così da poter raccogliere una grande mole di informazioni e chiavi di accesso con cui violare a poco a poco quel complesso sistema.

Ma tutto questo non bastò. Solo adesso mi rendo conto, con il senno di poi, che quelli che definivo successi della mia ricerca, per qualcuno erano soltanto prove della mia colpevolezza. Così un bel giorno il sistema all’improvviso si bloccò. I tentativi per scrollarmi di dosso quella che si palesava come un’enorme sciagura, si fecero rabbiosi e grossolani oltre che vani. Ero un animale preso al laccio che si dimena cercando di eludere l’inevitabile.

Non trascorsero dieci minuti che le forze dell’ordine irruppero rumorosamente nell’edificio. Quando mi furono davanti, uno di loro mi elencò i miei diritti, mentre il collega dialogava con il sovrintendente artificiale sul da farsi.

Isolamento digitale e controllo attivo in attesa di giudizio. Questo fu il responso. Qualcosa che al giorno d’oggi può essere paragonato al carcere in isolamento.

Per quasi un mese toccai con mano questa mia nuova realtà, schiacciata com’ero dalla più nera solitudine, nell’impossibilità di connettermi con il mondo, privata di ogni libertà e immersa nel più profondo e assiduo controllo di ogni mia azione, di ogni mio pensiero, di ogni mia volontà. Un tempo infinito in cui la mia mente vacillò più volte restituendomi a tutt’oggi un’immagine distorta di me stessa. Come se la mia persona, fatta di carne, sangue e pensiero, in quel lasso di tempo fosse rimasta appesa a testa in giù dentro un pozzo senza fine. Fu proprio allora, nel momento più buio e sconfortante, che la EternLab si fece avanti. In una delle tante mattinate trascorse a fissare il soffitto della mia stanza, distesa sul letto, una voce estranea si frappose tra i miei pensieri. Proveniva dall’esterno, dal corridoio adiacente: la voce di un uomo di cui ignoravo l’identità si imponeva sul solito brusio fatto di passi, pettegolezzi e motivetti canticchiati dagli inservienti. Poi due colpi di nocche sulla porta mi fecero balzare in piedi, e poco dopo l’uomo entrò. Poco più che trentenne, almeno dall’aspetto, spalle larghe e un inizio di stempiatura sulla fronte. Mi osservò sorridente per un po’, forse colpito dalla mia gracilità in parte nascosta da una vestaglia da notte, che ormai era diventata a tutti gli effetti la mia uniforme. Le sue sopracciglia, spesse e arcuate sugli occhi rotondi e ravvicinati gli donavano un’aria un po’ goffa, quella di chi non sarebbe riuscito a sostenere neanche una semplice conversazione. Ma in fondo non aveva bisogno di farlo. Doveva soltanto confermare la mia identità, mettersi comodo spostando la sedia dalla scrivania fin sotto le natiche, ed elencare i vari punti della proposta della EternLab scorrendo l’indice su un vecchio tablet. E così fece. Le sue labbra, che non persero mai quel sorrisetto, si mossero veloci per informarmi di tutto quello che dovevo sapere. La proposta in fondo era estremamente semplice. Sarei stata assunta dalla EternLab per il controllo dei luoghi virtuali preposti al contenimento delle coscienze post-mortem, mi avrebbero assegnato uno degli appartamenti di loro proprietà in un grande complesso ai confini della periferia di Roma, e infine sarebbe decaduta ogni conseguenza penale a mio carico.

“Perché proprio io?” chiesi.

“Il grande capo virtuale ha deciso così.” Rispose allargando ancor più il sorriso.

Come avrei potuto rifiutare? L’unica alternativa sarebbe stata quella di restare immersa in quel limbo oscuro, ad aspettare per mesi o magari anni, un giudizio che probabilmente poteva solo peggiorare la mia situazione. Non restava che accettare dunque, sottoscrivendo implicitamente che, Lisa Fiore, al tempo ventunenne, cercando di violare il sistema, ne fu inesorabilmente inglobata, e che negli anni a seguire lo avrebbe servito con la massima lealtà.

Fu così che poco dopo, due agenti in borghese mi accompagnarono nelle mie stanze, le stesse dove ancora adesso dormo, mi sveglio, respiro, e in cui al momento sono impegnata con il ritocco del trucco con indosso una vecchia felpa nera e un paio di leggins bucherellati stretti sulle cosce, aspettando la chiamata dagli uffici della EternLab.

Sulla grande vetrata che separa il mio mondo dall’esterno si formano rivoli di pioggia copiosi. Fiumiciattoli verticali che percorrono strade inaspettate fino a scomparire sotto la linea del pavimento. Al di là, solo agglomerati grigi e informi, strutture abitative inzuppate fino all’osso che si perdono all’orizzonte. La fitta pioggia e la foschia che in questo inizio di novembre rendono il paesaggio ancor più tetro, portano la mia mente ad immaginarmi immersa in un cupo cimitero moderno. Solo quella sorta di fastidioso campanello mi scrolla dall’auto-ipnosi in cui sono immersa, un suono acuto e sibilante che mi invita a collegarmi con gli stronzi della EternLab.

Mi farò attendere, come spesso capita. Un po’ per infastidirvi e un po’ per riorganizzare le idee. So cosa volete sapere, la pratica FN314 è sulla mia scrivania da settimane ormai. Avete bisogno di risultati, di soluzioni, di una relazione dettagliata. Avete bisogno di me insomma, di quella piccola stronza sgangherata che sommergete spesso e volentieri con sguardi di disprezzo, di quella criminale che è stata assunta senza un curriculum adeguato, di quella che fino a qualche mese fa guardavate dall’alto in basso, prima che l’opinione pubblica, spinta dalle dichiarazioni dei tutori parentali delle coscienze sepolte nelle vostre bolle artificiali, cominciasse a porsi domande sulle attività della EternLab.

Vi tengo per le palle adesso, tutto qui, ed è una sensazione bellissima.

“Invia un messaggio ai miei colleghi senza aprire la conversazione” chiedo al mio assistente. Lui crea una finestra di ascolto facendo sfumare quel suono assillante. “Riferisci che troveranno la loro fottuta relazione domattina sulla posta elettronica.” aggiungo.

Sarà una relazione breve e chiara, riferirò di aver riscontrato diverse anomalie in quel luogo virtuale, come le piogge di rane dai risvolti spesso violenti, la progressiva presa di coscienza di alcuni residenti sulla loro effettiva condizione, le probabili intromissioni esterne di un hacker o un gruppo di dissidenti, o magari solo una serie di sgambetti impartiti da qualche azienda concorrente con l’appoggio del sistema interno. Poi metterò nero su bianco le due uniche soluzioni al problema. L’eliminazione del file FN314 e di tutte le entità al suo interno: senz’altro la cosa più semplice ma anche più rischiosa a livello penale e di immagine dell’azienda. Oppure il reset della piattaforma e delle coscienze, epurando il tutto dalle varie anomalie: un lavoro che richiederà molto più tempo, ma che sarà in grado di arginare almeno in parte la polemica incalzante sulle attività della EternLab.

Non menzionerò invece quello che ho osservato da vicino in tutto questo tempo: l’organizzazione pseudo-criminale intenta al traffico e allo scambio di corpi virtuali all’interno della piattaforma, le scorribande dei giovani teppisti di paese, Nello e la sua pressante ricerca dalla verità. La singolarità di tutte le loro esperienze vissute in quel limbo digitale che, a prescindere dalla decisione finale dell’azienda verranno soppresse, disintegrate, e disperse in milioni di particelle gettate nel vuoto.

“Metti un vecchio brano, qualcosa di rilassante, jazz o blues di inizio novecento” dico all’assistente prima di stendermi sul divano.

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