di Ivan Nannini
Illustrazione di Elena Liverani
(Juri)
Il cielo stellato, Nello, Camilla. Uno strano edificio con i contorni appena visibili nell’oscurità. Classificatori, cassetti, documenti. Una serie di immagini, come coltelli mi trafiggono il lobo temporale. La mia testa è tutta un pulsare da una buona mezz’ora. Da quando, dopo un brusco risveglio seguito da un malsano e dolorante dormiveglia, non hanno fatto altro che impedirmi di trovare pace nel mio letto,costringendomi a nascondere la testa sotto il cuscino con i polpastrelli intenti a massaggiare ininterrottamente la nuca. I miei piedi, fuori dalle coperte arrotolate che ormai sono simili a un groppo, o un bolo informe, sono gelati. L’inverno è alle porte e il tempo è cambiato pian piano nei giorni scorsi. La cosa più dura di un risveglio del genere è il fatto di doversi alzare. A momenti i miei muscoli sono tutti pronti per questa azione, ma dopo un attimo, la mia faccia sprofonda di nuovo a peso morto sul cuscino, e poi ancora sotto di esso. Come da piccolo, quando questa sembrava l’unica soluzione efficace per sopportare le ingiustizie della vita e superare le mie notti insonni.
Mi sforzo di ripercorrere con la mente certe serate in famiglia, cercando di distogliere i miei pensieri da queste immagini fastidiose. Mi vedo a tavola con i miei. Mio padre, un imprenditore amato e rispettato da tutti e mia madre, la sua compagna di vita sempre fedele e corretta. Quando ci mettevamo a tavola la nostra immagine, se fosse stato possibile osservarci da fuori, era quella di una famiglia ideale. Tutti composti, educati, sempre pronti a passarsi il tacchino o le patate arrosto. Mia madre di solito metteva su anche un po’ di musica, tirando fuori dalla libreria in salotto un vinile alla volta, cercando di intuire le preferenze del momento di papà. Anche io facevo parte di tutto questo, non c’era atteggiamento, movimento, o richiesta, che non valutassi con precisione in precedenza. Tutto doveva svolgersi secondo un copione prestabilito che solo i miei genitori conoscevano. O meglio, solo mio padre conosceva e a mia madre probabilmente aveva fornito una copia. Io ero l’unico ad andare a tentoni, e per tutta la mia infanzia, e parte dell’adolescenza, mi impegnai fino allo sfinimento per scoprirne le linee guida. Ma non fu facile, e ogni volta che una mia domanda veniva ritenuta inopportuna, o il modo in cui inforcavo la pasta per portarla alla bocca disturbava questo delicato equilibrio, la reazione era sempre la stessa: mio padre si alzava dalla sedia, si tamponava la bocca con il tovagliolo, mi raggiungeva con tutta la calma del mondo, e senza dire una parola, mi afferrava per la nuca con la mano forte e sudaticcia per condurmi in camera mia. Mamma poteva continuare tranquillamente a tagliuzzare il tacchino con forchetta e coltello o a sorseggiare dell’acqua. In pratica si limitava a seguire le istruzioni sul copione, e anch’io mi adeguavo. Probabilmente la trama era questa, e al mio personaggio toccava subire quella tremenda stretta uscendo dalla sala da pranzo, poi nel salotto e su su per le scale, per poi finire chiuso a chiave in camera da letto. A quel punto la recita era finita, e potevo tranquillamente abbandonare il mio ruolo e scoppiare in un pianto isterico con la testa sotto il cuscino e le mani sul collo.
La sento ancora, anche adesso, quella maledetta fede nuziale sprofondare nelle mie giovani e delicate fasce muscolari. Anni dopo, appena mi fu possibile, me ne andai di casa. Ma continuai con lo stesso atteggiamento in risposta a qualsiasi frustrazione. Quando restavo da solo in casa, troppo fatto e depresso per uscire. Oppure quando, dopo infiniti litigi con la mia compagna, lei se ne andava lasciandomi come un fossile sul divano.
E adesso? La mia testa si ritrova infilata qui sotto e le mie mani sulla nuca come al solito, solo che in questo momento niente nei miei pensieri riesce a far chiarezza sul motivo scatenante. Resta solo la sensazione di una forzatura, una costrizione. E il problema maggiore forse è proprio il fatto di non sapere.
Cos’è successo ieri sera? Proprio non ricordo… tutto mi porta a pensare a una bella sbronza, a partire dalla nausea che sento arrivare. Ma niente ricordi, nessuna immagine. Come se la serata di ieri non fosse mai esistita. Solo questo sogno, solo le immagini che scorrono nella mia testa come fotogrammi impazziti hanno una parvenza di realtà.
Dalla finestra a lato del mio letto entra una luce soffusa, qualcosa di impalpabile e satinato. Me ne accorgo scostando appena il cuscino. Il cielo coperto da una coltre rarefatta color panna sembra non decidersi a far piovere. E a dirla tutta, sembra non lasciar spazio a nessun cambiamento meteo per molte ore. Mi faccio leva con i gomiti per tirarmi su. Alcune delle mie sinapsi hanno dato l’ordine di mettersi in piedi.
Il salotto è un campo di battaglia. L’impatto improvviso con questa visione mi fa traballare un po’. Ci sono bottiglie vuote in ogni dove e bicchieri incrostati dalla schiuma della birra o dal vino. Uno se ne sta in posizione orizzontale sul tavolo da fumo, il liquame rossastro fuoriuscito e ormai rappreso disegna strane forme sulla sua superfice. Un altro invece è lì, buono buono sulla scrivania accanto alla finestra con due dita di birra al suo interno. Lo prendo distrattamente in mano per portarlo alla bocca dopo essermi avvicinato per dare un’occhiata fuori. Il liquido che mi scende nella gola è amaro e senza alcuna struttura, e non fa altro che aumentare il mio senso di nausea. Mi trattengo per un pelo dallo sbottare, soffermandomi per qualche secondo con gli occhi chiusi e una mano sul petto . Poi mi decido ad aprire la finestra. L’aria fredda e umida entra prepotente, e mi costringe a stringermi su me stesso, avvolgendomi il più possibile con una coperta di pile raccolta dal pavimento. Solo adesso mi rendo conto, abbassando lo sguardo, di indossare un paio di blue jeans e un maglione a collo alto. Devo essermi infilato sotto le coperte così com’ero ieri sera. Non ho idea di chi sia questo maglione e perché lo indossi. So solo che non ho mai visto un capo tanto orrendo: di lana a maglia grossa, color verde bottiglia, con le maniche un po’ lunghe e una testa di cervo stampata al centro.
Dopo un paio di respiri profondi butto un occhio sulle persone che si muovono in strada. Sembrano tutti così distanti… camminano, parlano, si scambiano un saluto. Molte delle finestre nelle abitazioni sul mio raggio visivo sono chiuse, si vede solo qualche sagoma dietro i loro vetri opachi. Qualcuno che fa colazione, altri davanti alla tv. E poi di nuovo quei classificatori, le stelle, e Nello. Sopratutto Nello che mi balza in testa più e più volte all’improvviso.
Tutto questo non ha senso, mi dico. Poi infilo una mezza sigaretta in bocca, trovata razzolando fra il cumulo di cicche nel posacenere sulla scrivania. L’accendo e sputo fuori una copiosa nuvola di fumo che si diffonde nell’aria per poi dissolversi in un attimo, lasciando trasparire a poco a poco la sagoma di Renata al di là della strada. È da sola, come sempre. È in bagno e ha la fronte poggiata sullo specchio sopra il lavabo. Aguzzo la vista, ignorando con difficoltà il senso di disgusto formatosi nel mio stomaco dopo la prima boccata di fumo, e osservo meglio. Sembra che stia guardando qualcosa, il suo occhio è praticamente appiccicato allo specchio, come se volesse vedere oltre. Povera pazza, mi dico. Deve sentirsi un po’ spaesata in quella grande casa tutta sola. Le mie emozioni sono contrastanti nei suoi confronti. Da una parte la vedo distante, fredda e anche un po’ inquietante. Dall’altra, una persona molto chiusa che cerca di nascondere i sentimenti per difesa. Ma quello che provo in questo preciso istante è una sorta di rancore misto a compassione. In Molti dei suoi tratti riconosco mia madre, e questo rimanda a qualcosa di irrisolto dentro di me. Qualcosa che non so spiegare, un complesso che condiziona tutto il mio essere.
Tutto a un tratto Renata si allontana dallo specchio, e con la testa rivolta verso il soffitto si cimenta in una strana danza sventolando con veemenza un panno in tutte le direzioni, cercando probabilmente di far uscire qualcosa dalla finestra. Nel frattempo, con la coda dell’occhio noto una sagoma uscire dal suo giardino, è un uomo con degli arnesi in mano che si avvia sulla strada e scompare poco dopo in un vicolo. Mi somiglia, non posso fare a meno di notarlo nonostante la distanza. Forse il nuovo giardiniere? O forse è solo la mia immaginazione? Non mi stupirei. E mentre osservo tutta questa prova di teatro un gran formicolio mi tormenta, partendo dalla pianta dei piedi fin su nelle caviglie, diffondendosi progressivamente nei muscoli delle coscie e all’inguine. Ho bisogno d’aria, ho bisogno di muovere le gambe e togliermi dai piedi da queste quattro mura.
I pochi passi che mi separano dalla panchina sembrano non finire mai. Le gambe pesanti, l’affanno immotivato: uno zombie con una coperta sulle spalle. Non oso pensare alla mia faccia, ai miei capelli… uscire senza neanche guardarmi allo specchio. Senza pensare neanche di darmi una sistemata.
Ma come cazzo mi sono ridotto? Sbiascico tra un respiro e l’altro prima di sedermi con una smorfia di dolore. La seduta della panchina è gelata sotto le mie natiche, la osservo, e a tastoni mi faccio strada sui listelli in legno di cui è fatta. Cerco la realtà, inconsciamente cerco di capire se quella su cui sono seduto è o non è una vera panchina, scivolando con le mani su quel legno verde sbiadito e scrostato in più punti, come se questo potesse darmi delle risposte sulla mia confusione mentale. Sì, è reale, ma non più reale del film che ho in testa. E non si arresta questo flusso di pensiero , nonostante lo sforzo di ripercorrere i fatti avvenuti la sera precedente, immersa nel buio più fitto. Quale festino? E con chi tra l’altro? Dalla quantità di bicchieri e bottiglie sparsi un po’ qui e un po’ là, dovevano essere una mezza dozzina le persone in casa mia la scorsa notte. Posaceneri stracolmi, macchie sul pavimento. Non mi stupirei se rincasando trovassi delle chiazze di vomito in bagno o in qualche angolo della casa. Un festino alcolico con Nello? Con Camilla? Improbabile, mi dico, trattenendo un sorriso forzato e sofferente. Greg e la banda dei piccoli stronzi? Più probabile, ma nessuna immagine mi porta a loro. E allora cosa? Cos’è successo ieri sera?
A dire il vero è un bel po’ che in questo stupido posto succedono strane cose, cose di cui nessuno parla apertamente ma che si diffondono come virus nei nostri pensieri. Il mistero della scomparsa di Teresa, Greg e le sue teorie, i cellulari che non trasmettono, la sensazione comune di non poter uscire di qui. Sono gli occhi della gente che parlano mentre i corpi compiono azioni automatiche. Io li vedo, li sento i loro occhi addosso quando esco di casa o cammino per strada. C’è chi chiede aiuto con lo sguardo, chi è altrove, e chi ti guarda come se sapesse tutto. C’è anche chi sembra non accorgersi di nulla continuando a vivere la propria vita senza tanti problemi.
Ma una cosa è certa, ogni anima dispersa nelle viuzze di queste quattro case scalcinate, deve fare i conti con la propria realtà. E la mia, di realtà, è quella di un uomo che non sa che pesci pigliare. Di uno che se ne sta seduto su una panchina a fare ragionamenti distorti senza capo né coda. Un barbone che prende le cose come vengono e non si sforza di cambiarle. Come se ci fosse, nel mio cervello, qualcosa che mi blocca, che mi fa stare fermo mentre intorno c’è un fracasso mortale. Ma da quanto tempo è così? Da quando non vedo la mia compagna, o mia figlia, per esempio? Ci sono solo i ricordi… scavando nella mia mente affiorano immagini di loro: con mia figlia in un bar a gustare un gelato, con la mia compagna mentre facciamo sesso in una stanza d’albergo. Ricordi dispersi di telefonate, di conversazioni, di litigi. Tutto però è avvolto da un velo sottile, come se quelle esperienze fossero state filtrate o fosse stato impossibile viverle veramente.
“Vattene.”
I miei pensieri si cristallizzano all’istante, come i miei occhi fissi su di lei. Lo sforzo, nel tentativo di mantenere almeno all’apparenza uno stato di normalità imperturbabile e tenere a bada quella doccia fredda e improvvisa, dovuta all’immissione istantanea di adrenalina nella mia circolazione sanguigna, mi fa vibrare tutte le articolazioni e altera il mio campo visivo. Solo la sua mano ossuta e sporca e il suo indice puntato sul mio viso appaiono nitidi.
“Vattene da qui!”
La sua figura si staglia davanti a me come una montagna coperta di stracci. Una montagna che oscilla spostando il baricentro da un piede all’altro lentamente come un pendolo. I suoi occhi invece sono fissi sui miei e la sua espressione resta immobile e vuota. Forse qualcuno qui in paese conosce il suo nome, ma per me è solo la vecchia strega che abita nei dintorni. Quella che urla per strada. Non riesco a reggere il suo sguardo intenso e minaccioso. I miei occhi si perdono poco dopo sui miei jeans mentre faccio per alzarmi, dandomi una pulita frettolosa ai vestiti per poi spostare lo sguardo di nuovo su di lei, cercando di non farle percepire la mia agitazione e riacquistando la postura e la frequenza cardiaca giusta per risponderle in modo adeguato.
«Prego signora», le dico indicando la panchina con la mano, «è tutta sua».
La montagna, adesso che sono in piedi, sembra più una piccola collina. Ma continua comunque ad oscillare e a puntarmi il dito contro. La ignoro, e senza salutare mi volto per rincasare. A piccoli passi inizio a percorrere la breve distanza con la sensazione di avere ancora il suo sguardo addosso.
«Vattene, vattene da questo posto!» Urla.
La sento, non ho bisogno di voltarmi per capire che ha smesso di dondolare. Anche il mio cuore sembra congelato in attesa di qualcosa, come le mie gambe e il resto del corpo. Un’attesa di qualche secondo che sembra non finire mai. Poi la piccola montagna spezza il silenzio e inizia a parlare.
«La donna delle polpette è scomparsa, l’hanno portata via con le loro macchine blu. Anche l’uomo che aspira le rane, ieri sera, con le loro macchine blu. Ti cercano, ti porteranno via, con le loro macchine blu. Con le loro macchine blu ci porteranno via tutti. Questo posto è infetto, le rane che piovono dal cielo. Vattene da questo posto! Ti porteranno via con le loro macchine blu!».
La sua cantilena si ferma all’improvviso, l’aria è mossa soltanto da leggere folate di vento e un brusio assordante prende posto nella mia testa. Resto immobile per un pochi attimi, con i pugni serrati e le braccia perpendicolari al corpo. Poi i miei nervi si sciolgono e i miei pugni si allentano. Un’occhiata alla stupida testa di cervo stampata sul petto mi riporta alla realtà.
«È tutto?» le chiedo. La mia domanda non riceve risposta e voltandomi realizzo che la vecchia strega è scomparsa. Non c’è nessuno per strada, né da un lato, né dall’altro. Un deserto. Dalle finestre non si vede anima viva. Ispeziono freneticamente ogni direzione. Quella sensazione mi coglie di sorpresa come un pugno nello stomaco, la stessa del mio risveglio. Per un attimo perdo l’equilibrio, un’angoscia improvvisa, un senso di solitudine a cui non c’è rimedio. Sono solo, e non ho neanche un letto a disposizione per buttarmici sopra, né tantomeno un cuscino da stringere sulle orecchie. Poi quella voce mi rimbalza in testa a più riprese. “Vattene.” e di nuovo, “Vattene da questo posto!” E allora le mie mani si infilano nelle tasche tirando fuori tutto. E tremano, tremano a non finire e su di loro danzano le chiavi della mia auto, un accendino, un pacchetto semivuoto di sigarette distrettuali morbide e un foglio di carta ripiegato in quattro. Lo apro, cercando in tutti i modi di farlo vibrare il meno possibile.
E’ un documento distrettuale, riguardante la manutenzione della macchina Kapler: quel catorcio con cui Nello aspira le rane. Da dove viene questo documento? E com’è che me lo ritrovo in tasca? Le mie mani ora sono finalmente ferme mentre la mia attenzione si focalizza sui vari punti disposti in ordine sul documento. Cinquemila monete distrettuali l’anno per la manutenzione di quel coso? Mi chiedo. Poi dei collegamenti automatici prendono il via nella mia testa. Sono di nuovo lì che apro dei classificatori, in quell’ufficio immerso nel buio più fitto, facendomi luce con una torcia stretta tra i denti. Ho dei documenti in mano, li sfoglio, li leggo. Il loro contenuto fatica a mettersi a fuoco. Poi Nello mi parla, ma la sua voce è lontana e incomprensibile, come provenisse dall’altro lato di un muro invisibile.
Devo andarmene da qui, devo allontanarmi da questo posto, mi ripeto procedendo a passo svelto verso la mia auto. Il battito cardiaco accelera, e mi accompagna per tutto il tragitto sbattendo sulle pareti del mio cranio come mazze su un tamburo. Si affievolisce soltanto quando apro la portiera per sedermi al volante. Senza pensarci troppo, e senza la minima idea di dove andare, inserisco la chiave nel quadro, le do una bella girata, e distendo i miei nervi cullato dal rombo del motore. Poi mi accendo una sigaretta lasciando uno spiraglio nel finestrino e premo sul tasto “on” dello stereo spostando la manopola al massimo del volume. Il ritmo e la linea di basso di “Man in the box” degli Alice in Chains, premono contro il mio petto come un martello pneumatico, e tutto l’abitacolo della mia auto sembra sottoposto alla stessa violenta vibrazione. Dopo una consistente quantità di fumo inspirata a pieni polmoni schiaccio il pedale dell’acceleratore. Quando espiro, la mia auto ha già percorso una ventina di metri verso ovest. Senza distogliere lo sguardo dalla linea che divide le due carreggiate vedo sfilare alla mia sinistra lo scantinato di Alvaro, poi qualche sporadica abitazione intervallata da una serie di curve affiancate da fitte file di quercie, cipressi e piccoli cespugli di alloro. La musica assordante mi accompagna in questo veloce zigzagare e mi ritrovo a tradurre, cercando di svuotare la mente da qualsiasi altro pensiero, alcune parti del testo di Layne Staley. “I’m the man in the box, buried in my shit” e ancora: “won’t you come and save me?”
Un uomo in scatola, sepolto nella sua merda…, dico a me stesso.
Poi d’un tratto, dopo una curva a gomito, si materializzano alcune figure che riconosco all’istante. Ci sono Greg, Nicolino, altri ragazzi del paese e Camilla. Mi fissano senza tradire alcuna espressione per poi riprendere il cammino nella mia stessa direzione. Io continuo ad osservarli dallo specchietto retrovisore lasciandomeli alle spalle, fino a che scompaiono dalla mia visuale. E dopo un attimo, con improvvisa sorpresa, mi ritrovo a schiacciare il pedale del freno con tutta la forza possibile cercando di tenere l’auto in carreggiata e non sbattere contro un furgone fermo in strada.
«Per un pelo, cazzo…», dico a bassa voce. Poi mi massaggio un po’ le tempie, premo il tasto “off” dello stereo e scendo in strada. In lontananza si vedono dei lampeggianti e una dozzina di persone fuori dalle loro automobili che discutono in piccoli gruppi. Sposto un po’ la testa cercando di capire cosa possa essere successo. Forse un incidente? Un posto di blocco? Non si vede granché da qui, se non una considerevole quantità di automezzi su un lungo rettilineo alberato.
I ragazzi intanto mi hanno raggiunto e sfiorandomi continuano il loro cammino, probabilmente verso il possibile incidente. Neanche una parola né uno sguardo. Tutto sembra immobile e astratto intorno a me, le persone, l’aria umida e stagnante, il lungo viale a perdita d’occhio. Se non fosse per quelle luci lontane che alternano il loro colore tra il rosso e il blu, questa potrebbe essere senza dubbio un’istantanea o una cartolina. Anche il silenzio che risuona nelle mie orecchie intormentite da tutti quei decibel sembra fatto della stessa immobile sostanza.
“Un uomo in scatola”, così mi sento. E in un momento uno schiocco irrompe improvviso, un colpo secco in lontananza a cui ne segue un altro a pochi metri di distanza da me. L’impatto violento di quest’ultimo mi coglie di sorpresa, e in un attimo, un’enorme rana di un verde smeraldo intenso si materializza ai miei piedi. Tutta la scena dura sì e no il tempo di un battito di ciglia. Quel missile piovuto dal cielo, schiantato prima sul tettuccio di un auto e poi sbattuto davanti a me, ora si contorce senza sosta cercando invano di rimettersi in piedi. Tutti gli sguardi volgono al cielo, su quella coltre immobile si formano infiniti puntini neri che attimo dopo attimo oscurano la volta celeste. La temperatura si abbassa ulteriormente e anche il viale alberato si annerisce restituendo un’immagine ancor più surreale. Le persone si scrutano, i loro sguardi si incrociano come a chiedersi cosa fare, come se qualcuno potesse prendere l’iniziativa e risolvere la situazione. Io mi accendo una sigaretta. Ormai rassegnato ad accettare le inevitabili conseguenze di una tempesta di rane che si preannuncia così imponente, mi infilo in macchina e accendo di nuovo lo stereo. “Jesus Christ, deny your maker”, annuncia Layne Staley con un grido straziante, “he who tries, will be wasted”. “Gesù Cristo, rinnega il tuo creatore. Quello che ci prova sarà rinnegato.” Mi perdo nella nuvola di fumo che riempie l’abitacolo, costretto in questo spazio minuscolo e ovattato. Inclino un po’ la testa per scrutare oltre il parabrezza, con un unico pensiero che si impone prepotente nella mia mente: siamo fottuti.
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