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ep.19 Dentro lo specchio

introduzione di Ivan Nannini

Nell’episodio precedente abbiamo avuto a che fare con i dubbi di Nina. Siamo stati travolti dal turbinare dei suoi pensieri, dalle sue fobie, dalla distanza incolmabile tra lei e il “resto”. Tutto pareva diverso ai suoi occhi, e allo stesso tempo ogni cosa restava la stessa di sempre. Diverso, e allo stesso tempo tutto come sempre. Eh sì, direte voi, un bel casino. Ma la vita è un po’ così… le cose cambiano continuamente e siamo noi, spesso, a tentare di stabilizzarla per renderla più razionale. A proposito, e voi? Stamattina vi siete svegliati presto? Quanto tempo avete trascorso a guardare il vostro opposto al di là dello specchio, in quel mondo parallelo così familiare? Magari non l’avete neanche notato, tanto eravate impegnati con lo spazzolino da denti o con il rossetto da dare sulle labbra. Renata di solito ci passa un bel po’ di tempo davanti a quello strano mondo, lo sta facendo anche adesso, mentre noi stiamo qui a conversare. Se siete pronti andate a vedere, in punta di piedi mi raccomando.

Buona lettura con il diciannovesimo episodio della serie, rappresentato in copertina da un disegno di Rosario Gulli.

EPISODIO DICIANNOVE: DENTRO LO SPECCHIO

di Marco Morselli

(Renata)

Eppure sono sempre state qui. È per questo che devo ricordarmi di prenderle, perché altrimenti poi mi dimentico le cose, mi si annebbia la testa. Sono sempre state qui e ora non ci sono. Il mobiletto del bagno serve a questo. Tutti tengono le medicine nel mobiletto del bagno. Ma nel mio non ci sono. Non ci sono più. Lo specchio però brilla come dovrebbe. La mia soluzione di bicarbonato, aceto di mele, succo di limone e acqua demineralizzata funziona sempre. Basta una spruzzata su ogni superficie e una passata veloce con il panno in microfibra. Per i vetri può andar bene anche la carta di giornale, l’importante è fare dei movimenti concentrici per non lasciare gli aloni. Ma chi ha più visto un giornale da queste parti da quanto Pietro se n’è andato? Pietro lo comprava sempre il giornale. Si sedeva in giardino ogni giorno, sulla stessa seggiola di metallo verniciata di bianco, e dava le spalle alla finestra a cui mi affacciavo io. Gli piaceva guardare la strada mentre leggeva. Tra una notizia e l’altra alzava gli occhi e salutava i passanti. Anche quelli che non conosceva. Di sconosciuti da queste parti non ne passano tanti, ci conosciamo un po’ tutti. Ma ogni tanto qualche forestiero viene sorpreso sulla strada che attraversa il paese, suscitando la curiosità generale. E allora ognuno reagisce a modo suo: c’è chi lancia uno sguardo ostile, chi resta indifferente, e chi si apre in un gran sorriso e agita la mano. Pietro faceva così. Ma era un’abitudine tutta sua, che io non condividevo affatto. Va bene non essere scortesi, ma sbracciarsi in pubblico per salutare un perfetto sconosciuto lo trovavo poco appropriato. Che potevo farci però, Pietro era così solare, e alla fine mi ero abituata a quella sua gestualità. Mi piaceva guardarlo mentre si rilassava in mezzo alle mie rose, a godere dell’odore dell’erba appena tagliata. Gli preparavo il suo tè freddo preferito, alla menta con una fetta di arancia. E lo spiavo da dietro il vetro sfogliare il giornale, con la testa costretta in avanti dalla miopia, il collo rugoso fasciato dal colletto perfettamente stirato della camicia appiccicata allo schienale della sedia. Come faceva a trovarla comoda, lo sapeva solo lui. A me faceva venire soltanto dei bei mal di schiena.

L’odore dell’erba lo sento anche adesso. Forse perché la finestra è mezza aperta e il giardino è stato sistemato ieri. Apro di nuovo lo sportello per cercare le pasticche, ma continuano a non essere lì. Il mobiletto è vuoto, e sa ancora di quando lo abbiamo comprato la prima volta. Un odore di legno fresco, laccato e pulito. E un senso di vuoto e di incompleto. Chiudo di nuovo. Sarà soltanto una mia sensazione ma ogni volta che mi guardo allo specchio ho sempre l’impressione che qualcuno mi stia guardando. Ormai succede spesso. Appena mi affaccio al primo riflesso, un breve sussulto, le rughe, i capelli bianchi, i lobi delle orecchie che ciondolano come la pelle sotto le braccia. La mia faccia sempre più pallida, il naso adunco come non è mai stato prima. E dietro di me la porta semichiusa, lo stipite di legno di noce, lucido e robusto, le piastrelle di marmo bianco che risalgono le pareti fino a coprirne la metà. Nient’altro. Dietro di me non c’è nessuno. Ma questa sensazione è reale. Mi volto e in effetti sono da sola. Forse è soltanto una mia idea. Forse è Pietro che mi guarda, ho letto storie di persone che… ma se fosse lui a guardarmi mi sentirei al sicuro. E io non mi sento affatto al sicuro. C’è qualcuno che mi guarda ma non è Pietro. E se anziché alle mie spalle fosse qui davanti? Magari non è un riflesso, forse dietro lo specchio del bagno c’è qualcosa. Apro di nuovo lo sportello, sempre la solita mensola vuota. Eppure qualcuno mi sta guardando e lo sta facendo in questo stesso momento. Nello stesso momento in cui sto pensando. C’è qualcosa che sa o che sapeva che io in questo momento sarei stata qui e avrei pensato: “c’è qualcuno che mi guarda.”

Dietro questo specchio la calma è irreale. Chi mi guarda lo fa senza ostilità, almeno così vuole farmi credere.

“Chi c’è lì dietro?” cerco di sorprenderlo in qualche modo. E intanto mi guardo intorno per vedere se intercetto qualche microfono nascosto. Sotto le mensole, dietro il lavandino, dentro il rubinetto. E provo a svitarlo. Nessuno risponde. Continuo a svitare il filtro. È perfettamente lucido, nonostante i residui di calcare, e questo perché ogni settimana lo metto a bagno in una vaschetta di aceto. La mia amica Francesca mi dava sempre della matta, diceva che l’aceto puzza. Puzzerà anche, ma come porta via gli aloni.

“C’è qualcuno, lo so!” insisto “parlami, perché mi guardi?”

Finalmente rimuovo il filtro. Infilo il dito dentro la cannella ma non sento niente. Faccio andare l’acqua. Il getto è regolare. Chiudo la finestra, poi la porta alle mie spalle. Controllo la doccia, il bidet, anche la tazza. Gli asciugamani arrotolati nel ripiano. Ma non trovo niente.

“Nessuno può sentirci” torno allo specchio “dimmi chi sei, dimmi cosa vuoi?”

Dalla cannella esce un getto improvviso e io faccio un salto all’indietro. Ma è soltanto un rigurgito. Controllo che niente si muova, la saponetta, il portasciugamano, le tende. Tutto immobile. Mi innervosisco, non è tollerabile che ci si prenda gioco di una signora.

“Chiunque sia lì dietro, mi risponda!”

Torno alla finestra, fuori c’è un bambino che corre per strada. Sembra Nicolino. Ma non è lui. Eppure non ci sono altri bambini qui intorno. E non può essere certo un forestiero. Troppo piccolo. Lo guardo scorrazzare per un po’, basta che non venga a pesticciarmi l’erba. Provo ad aprire la finestra per cambiare l’aria ma non ci riesco. Come mi sono infiacchita con l’età, e se poi non prendo quasi mai le medicine. Provo a sforzarmi di più ma è bloccata. Mi sento soffocare. Ho bisogno di bere, ma dal lavandino non esce acqua. Vado ad aprire la porta e la maniglia non si muove. Non è chiusa a chiave, la maniglia non scende. Immobile. Sono chiusa qui dentro. Manca l’aria.

“Chi c’è?” comincio a gridare “che cosa vuoi?”

Sento un ronzio sopra di me. Un moscone. Detesto i mosconi, sono insetti inutili, sono sporchi, sono orribili. Ma quando è entrato? La finestra e la porta sono chiuse da chissà quanto tempo. Quella bestia continua a svolazzarmi sopra il capo. Non scende mai per posarsi sul bordo della vasca o sulla mensola. Si muove ad una velocità costante, quasi controllata. Da una parte all’altra della stanza, a mezzo metro dalla mia testa.

“Maledetto animale ora lo vedi!” srotolo un asciugamano e comincio ad agitarlo sopra di me, come fosse una frusta. “Prima o poi ti prendo!”

Ma lui mi ignora e soprattutto si sottrae a ogni colpo di asciugamano senza mai modificare le sue traiettorie. Dopo vari tentativi a testa in su mi accorgo che quella bestia sta disegnando un otto, tra i quattro angoli della stanza, incrociando le linee sopra di me. Da quando me ne sono accorta vola sempre nello stesso modo, alla stessa altezza. Un ronzio ininterrotto che si attenua e poi diventa più acuto e poi si attenua di nuovo.

Torno alla finestra. Se riesco ad aprirla almeno se ne andrà. Ma è ancora bloccata. Sono chiusa nel bagno, a parlare con uno specchio mentre un moscone mi vola sulla testa.

“Chiunque tu sia, rispondimi subito!”

Mi avvicino allo specchio. Lo osservo per bene. Se c’è qualcuno che mi guarda ci sarà un foro, una macchiolina che nasconde un qualche apparecchio. Il vetro mi solletica le sopracciglia e ora vedo soltanto il mio occhio. Nell’oscurità intravedo una serie di nervature di colori vari. Nient’altro. Le nervature si uniscono in un reticolato irregolare. Una costellazione di puntini che pulsano si espande dappertutto. Pulsano sempre più forte finché non mi accorgo che hanno preso la stessa cadenza del cuore. Ora si muovono all’unisono, e il mio respiro si adegua. Cerco di tenere il ritmo più basso che posso. Mi allontano dallo specchio e inciampo sulle mie gambe, ma non cado. Ho perso ogni riferimento. La testa schiacciata. Guardo il pavimento, vorrei sprofondarci dentro. Riesco a mala pena a parlare.

“C’è nessuno lì?” provo a schiarirmi la voce.

Una saponetta verde a forma di rana appoggiata sul bordo della vasca. Profuma di felce mentre mi guarda. Ne vendono a pacchi al negozio in fondo alla strada, di vari colori e profumi. Non ho mai capito questa fissa per le rane che hanno in questo posto. A me piace quello alla felce perché mi ricorda Pietro quando usciva dal bagno. Si faceva sempre la doccia con quel sapone, e quando usciva impregnava il suo accappatoio con l’odore di erba fresca.

Ho bisogno d’aria. Riesco finalmente ad aprire la finestra. Il bambino che non era Nicolino non c’è più. Faccio un grande respiro e torno al lavandino. Non so più quello che dovevo fare. Perché sono qui? Ah sì, le pasticche. Mi guardo allo specchio, ho la pelle del viso più levigata, la crema miracolosa che mi ha regalato l’americana funziona davvero. La fanno solo laggiù e non è facile trovarla da queste parti. Anche il colore è migliorato, non è più spento come prima, devo ricordarmi di dirglielo. Dopo appena un mese sono ringiovanita di quanti anni? Ah, mi sento così rinvigorita! Le medicine, ecco cosa stavo cercando. Apro lo sportello dell’armadietto e mi fermo un attimo a guardare come sono sistemate le pile di scatole, i barattolini di pasticche, le fiale. Non c’è mobiletto più ordinato di questo.

Chiudo lo sportello e mi guardo di nuovo. I capelli sembrano più scuri del solito. Un moscone vola sulla testa e scappa dalla finestra. C’è una macchiolina nel vetro dello specchio. Perché non l’ho vista prima? Spruzzo la mia soluzione miracolosa e ci strofino il panno sopra. Movimenti circolari, Renata, mi raccomando. Circolari.

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