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ep.18 Nemmeno una rana

Introduzione di Ivan Nannini

Forse è capitato anche a voi di vedere le cose sotto una luce diversa, di osservare il mondo da un’altra prospettiva, di non riconoscere le persone a voi vicine guardandole negli occhi. Quelle stesse persone che fino a ieri erano una certezza. Eppure ne avete passate tante insieme: quelle lunghe conversazioni e risate spontanee, quelle serate ad aspettare il tramonto in riva al mare, quegli stupidi litigi; sempre gli stessi e per le stesse futili ragioni tra l’altro. E adesso? Adesso che guardate in fondo ai loro occhi quelle persone non ci sono più. Ma dove sono finite? Eppure sono davanti a voi in carne ed ossa, le potete toccare allungando la mano, potete sentirne l’odore avvicinandovi, ascoltare i loro passi, i loro respiri. Ve lo state chiedendo vero? Non vi esce proprio dalla testa questo pensiero… sono loro o siete voi gli estranei? Forse è solo una delle tante domande senza risposta, ma non potete fare a meno di porvela. Cavoli, si è fatto tardi. Nina si è appena svegliata, statele accanto, sarà una lunga giornata per lei.

Buona lettura con il diciottesimo episodio della serie, rappresentato in copertina da un disegno di Rosario Gulli

EPISODIO DICIOTTO: NEMMENO UNA RANA

di Tommaso Aramaico

(Nina)

Deve essere uscito di casa portandosi dietro il suo merdoso sassofono. Non so come abbia trovato il coraggio per farlo, mentre io sono ridotta in questo stato, né so dove sia andato a cacciarsi. So solamente che qui a casa non c’è, perché tutto è immerso nel silenzio. Le mie orecchie finalmente a riparo dal suo stupido accento, dal suo insopportabile pezzo di latta che fa tremare i vetri. Eppure ronzano. È lui che mi pensa? Non c’è, lo so. Che se ne sia andato una volta e per tutte? Non ha le palle, deve starsene accucciato da qualche parte a piagnucolare. Eppure mi ha mollato qui.

Quanto ho dormito? Un giorno e mezzo, secondo i miei calcoli. Non ho ancora trovato la forza per alzarmi, e nemmeno il coraggio. Mi guardo intorno e tendo l’orecchio per cogliere anche il minimo movimento e rumore. Mi sorprendo ad aver paura. Di Jeff? Di lui? Mi sono ritrovata con ancora addosso la vestaglia sul pigiama a scacchi, gli scarponi da trekking sono rovesciati sul tappeto, luridi e vuoti. Non è passata un’ora da che ho aperto gli occhi. Il bambino era lì, solo che non era più un bambino, il mio bambino. Quando ho aperto gli occhi e lentamente mi sono tirata su a sedere perché tutto intorno il mondo girava, mi è sembrato di sentire una porta chiudersi. L’ho sognato? Era lui che se ne andava o qualcuno che era stato con mio figlio fino a quel momento? Ho aperto gli occhi lacrimosi su Nicolino, ma lui non era più un bambino. Quanto avevo dormito? Dal telegiornale alla televisione, facendo i conti, tutto diceva: un giorno e mezzo. Niente di più. Da come ritrovo il mondo attorno a me, invece, devo aver dormito molto di più.

Lui mi ha salvata e portata a casa, ma questa volta la storia è stata diversa. Mi ha tirata per i capelli, dalle spalle, mentre io me ne stavo impalata, immobilizzata subito dopo aver posato il piede oltre il confine di questo buco di posto da cui, forse, non riuscirò mai ad uscire. Niente carezze, non una parola, questa volta. Uno strattone, uno sbuffo per non so cosa, quindi mi aveva presa in braccio per riportarmi indietro. Mezza svenuta, la mascella serrata in un doloroso crampo, non mi sentivo protetta, non ero fiera di lui e lui non sembrava fiero di me. Non c’era nessuno a guardarci, per strada, e lui non sembrava proprio più essere il mio uomo, nemmeno l’uomo che mi aveva stancata e snervata. Sembrava un altro – guardava dritto davanti a sé, serio, e aveva il volto scuro, persino con un’ombra di barba. Ed io che ero convinta, anche se non ci avevo mai pensato prima, che non avesse nemmeno un pelo, un pelo vero, che fosse incapace di avere peli. E invece mi aveva graffiata con la barba. È stato in quel momento che per la prima volta mi sono trovata a pensare, Jeff ha i peli. L’ho pensato non appena mi aveva graffiata, quando ad un tratto mi sono lasciata andare ad un cenno di convulsioni, agitata perché non lo riconoscevo, perché non sembrava poi tanto stupido o innocente. Non come un tempo. No. Pareva un altro. Mi faceva paura e così avevo chiuso gli occhi per non doverlo guardare e pregavo che mi lasciasse e scomparisse. Non ho aperto gli occhi, né proferito parola, ho respirato appena, fino a che non siamo entrati in casa. In uno spiraglio, solo in uno spiraglio ho alzato le palpebre, nulla più, e solo quando lui mi ha lasciata sul divano. Ho aperto gli occhi solo nel momento in cui ho capito che era salito al piano di sopra. E quello spiraglio mi ha presentato la sagoma di Nicolino, che era già seduto sulla poltrona, proprio davanti a me. Non avevo pensato a lui, in tutto quel tragitto. Li avevo richiusi immediatamente, gli occhi, perché non avevo la forza per dirgli di non azzardarsi a guardarmi a quel modo. Allora devo essermi addormentata, sfinita, in un misto di rabbia e paura. Ho dormito un giorno e mezzo, per risvegliarmi e trovarlo, il bambino, sempre seduto allo stesso posto. Possibile che non si sia mai mosso? Ti serve qualcosa? Così si è limitato a chiedermi e quando io ho fatto di no con la testa, senza trovare il coraggio nemmeno per parlare, nemmeno per chiedere un bicchiere d’acqua perché mi sentivo arsa dalla sete, allora si è alzato e senza dire altro o chiedermi come stavo, è salito su per le scale ed è andato a ficcarsi in camera sua. Indossava una tuta nera e attillata che non gli avevo mai vista prima addosso, che non gli avevo comprato.

Non credete a quelli che dicono o che scrivono di aver dormito per due giorni e che poi si sono alzati e via, come nulla fosse. Io ho aperto gli occhi su di un mondo disgustoso. Ci ho forse messo qualche secondo di troppo per capire di dove venisse l’odore rancido di urina. Forse era troppo incredibile pensare che il senso di umido che sentivo sul ventre, i fianchi e le coscie, significasse che mi ero pisciata sotto e che ero rimasta a macerare nella sporcizia. Questo è successo a me. Mi sono alzata un minuto fa e sono ancora immobile al centro del salone. Devo muovermi, adesso.

Barcollo fino in cucina. Trattengo il respiro e ficco la testa sotto l’acqua del rubinetto. Uno, due, tre, conto. L’acqua fredda fa letteralmente male e per un attimo l’emicrania sale di intensità, fino a farsi dolore lancinante. Tiro la testa fuori dal getto. Uno, due… Il dolore passa, lentamente perde di intensità. Bagnata, sporca e gocciolante, cammino verso il bagno rischiando più volte di cadere per le scale. Devo prendere le mie pasticche, perché ormai so di non poterne fare a meno, perché senza sto male. È un fatto. Sono in bagno e adesso che a fatica alzo il braccio per arrivare al pomello dell’armadietto, mi rendo conto che c’è qualcosa che non va. Un dolore sale dallo stomaco fino a investire il volto, le orecchie, gli zigomi. Le ho buttate, io le ho buttate tutte. L’avevo dimenticato che ho dato di matto. Non più di due giorni fa, sembra passata un’era. Sento le lacrime affacciarsi agli occhi e, con vista tremolante, apro comunque lo sportellino bianco. Lo riconosco, è un automatismo. Faccio un mucchio di cose senza pensare, sono tutta un fare senza pensare veramente a quello che faccio. Ma guarda un po’, eccole, sono loro, ci sono. Le vedo attraverso le lacrime che in un attimo mi hanno già gonfiato gli occhi indeboliti dopo un lunghissimo sonno. Sono qui, dove non dovrebbero essere. Le afferro con dita tremanti, annusato il flaconcino, lo bacio, me lo strofino sulle guance, lo bagno con le mie lacrime. Lo venero, lo sto venerando, ma un pensierino affiora. Non dovrebbero essere qui.

Respiro con la bocca spalancata, mentre lo ispeziono, senza aprirlo. L’etichetta è quasi impercettibilmente rovinata, su di un lato. Sono stata io con le mie lacrime? Chi l’ha messo qui? Solo lui può essere stato, Jeff. Ma come ha potuto? Ci vuole la prescrizione e lui non l’ha e non può esser stato dal medico perché tutto questo casino è successo nel fine settimana, oggi è lunedì e il medico viene in paese solo il martedì e il giovedì. Il flaconcino mi sfugge dalle mani o sono le mie dita che si ritirano? Non lo so. Non so più un cazzo, io. Cade nel lavandino e rotola fino a che non disperde tutto il carico di forza trattenuto nella caduta. Ecco che succede di nuovo. Il tempo accelera. Sento di non aver tempo sufficiente per pensare. Il mondo inizia a muoversi, sempre più veloce. E io devo cercare di stargli dietro e di pensare. Pensa Nina, diavolo, per una volta in vita tua, pensa.

Sono fuori dal bagno e sto barcollando fino alla porta della camera di Nicolino. Mi ritrovo a bussare anche se non so bene perché. Pensa Nina, pensa. Lui non risponde. Sento puzza di fumo, so che è lì dentro. Che stai facendo? Gli strillo da dietro la porta. Rispondi! Gli ordino, anche se ormai mi sento tagliata fuori dai giochi. Sono tua madre, gli dico, ma senza esserne troppo convinta. Mi accanisco sulla maniglia, mi ci aggrappo con tutto il peso, ma la porta è chiusa a chiave. Scivolo a terra e batto il gomito. Non fa troppo male. Macché, Nina, pensa. Non c’è tempo per piagnucolare. Perdo la testa. Ho appena perso la testa e al tempo stesso so di averla persa. Da una sono diventata due. La me fuori di testa sta prendendo a pugni la porta, Non me ne vado, fino a che non mi apri e non mi spieghi cosa sta succendendo. E giù pugni e calci. D’un tratto la maglia si abbassa. Sta aprendo. Mi fermo. Le mie nocche sono violacee e ho i crampi alle dita dei piedi, per il dolore.

Eccolo. Uno strano odore lo avvolge. Sembra più alto e terribilmente magro. Pelle e ossa e occhi rabbiosi. Chi sei? vorrei chiedergli, ma non oso. Ho paura che mi risponda di essere qualcuno che io non so. Sento che lì dentro c’è qualcuno, anche se non riesco a distinguere nulla alle sue spalle perché la cameretta è immersa nel buio e le finestre sono abbassate. L’unica fonte di luce è il faretto sulla sua scrivania, anche se soffocata da qualcosa che Nicolino gli aveva buttato sopra. Sono ammutolita di fronte al suo volto tagliente, alle sue labbra serrate, al suo silenzio. Con me, con la madre, osa tacere a questo modo. Non ho coraggio per chiedergli se Jeff sia lì dentro, nascosto nell’ombra, tramando chissà cosa. Senza dire una sola parola mi volto. Ho paura di mio figlio. È mio figlio? Scendo le scale rischiando di inciampare ad ogni gradino, fino alla scaletta a chiocciola che porta direttamente in garage. Il mondo corre veloce e io non penso, come al solito. Agisco senza pensare. Penso a cose fatte, quando ho già fatto qualche cazzata delle mie. Sono sempre stata così. Fin da ragazza me lo ripetevano i miei genitori. Sei sempre pronta a fare qualcosa.

Sono nel posto peggiore, per me che soffro posti di quel genere. Sono almeno tre anni che non ci scendevo. L’ultima volta risale ad una brutta crisi in cui sono letteralmente crollata battendo la testa contro il cofano della macchina di Jeff. Perché non sono andata a rifugiarmi in camera da letto? Lo so, adesso che ci penso lo so. Perché ho paura di lui, di Jeff, perché potrebbe essersi nascosto lì, in agguato, dietro alla porta, sotto il letto, nella cabina armadio. Ma non per uscire suonando il suo merdoso sassofono, ma per farmi del male. Per questo mi sono cacciata nel posto peggiore della casa? Perché qui non si aspetterebbe mai di trovarmi qui? Forse qualcosa di più intelligente di me è qui e pensa per me. L’ultima volta che sono entrata in garage sono svenuta dopo trenta secondi, anche meno. Adesso no, non dovrei svenire, ma ho il fiatone. Ho bisogno di aria. A tentoni, seguo con le dita la fiancata della monovolume di Jeff. Eccola, sono alla saracinesca. Impugno la maniglia gelida e mi pare incredibile di averla trovata subito. C’è qualcosa che agisce, in me, perché fosse stato per me avrei passato l’intera vita a mancare questa maniglia che adesso tiro, aprendo la saracinesca sulla ripida salita che porta alla strada. L’aria fresca entra in una folata che mi offre ossigeno. Respiro a bocca aperta. Forse ho fatto bene a venire qui sotto. Il mondo rallenta, sta rallentando. Riesco a pensare.

Non è vero, non è vero. Basta un rumore, uno spillo che cade ed ecco che tutto torna a correre e io non gli sto dietro. Sono nuovamente due. Quella che guarda incredula e quella che vedo riflessa nel parabrezza della macchina. Mi vedo fare piroette e tapparmi la bocca con le mani per soffocare le bestemmie. È proprio come facevo da ragazza, quando mia madre mi chiudeva a chiave in camera per non farmi uscire di casa ed evitare che mi cacciassi in qualche assurda situazione. Eccomi, nuovamente pazza, sfatta e riflessa nel parabrezza, saltello e piroetto con le mani strette sulla bocca, mentre fra le mie dita gocciano bestemmie distorte, come da ragazza, quando mi chiudevano in camera per evitare che combinassi qualche guaio con chissà quale ragazzo, mentre adesso, la causa è lì, appesa ad un gancio. È il sassofono di Jeff che penzola devastato, aperto in più punti, annerito perché forse ha cercato di dargli fuoco prima di abbandonato lì, impalato. Mi fermo, mi blocco. Quella sono io, ecco cosa penso. E vedo me stessa al posto di questo cazzo di sassofono che nell’arco di un giorno, nel tempo immemore del mio breve coma, della mia assenza dal mondo, è diventato il male, qualcosa da distruggere. Me stessa, ecco quello che vedo. Quel sassofono sono io. Tutto torna, adesso. Pensa Nina, pensa, non fare la pazza, non volteggiare, non bestemmiare, non perdere tempo. Stai rischiando Nina, questa volta rischi di brutto. Tutto torna. Jeff sparito, il sassofono distrutto, il bambino diverso, mezzo uomo, la faccia lievemente truce, spigolosa. Ha perso il lieve gonfiore del bambino che era fino all’altro giorno. Non è più il mio bambino e neppure quel nome che ha va più bene. Non è più suo, non so come chiamarlo. E Jeff stesso, con quella faccia dura e il sentore di barba.

Mi ficco in macchina anche se non guido più da anni. Devo scappare. Se ricordo bene Jeff da sempre lascia le chiavi nel cruscotto. L’ha sempre fatta semplice, lui: se qualcuno voleva fregargliela e riusciva a forzare la serranda del garage, meglio che trovasse le chiavi direttamente nel cruscotto e se ne andasse alla svelta, piuttosto che spingerlo ad entrare in casa e magari combinare un casino. E infatti le chiavi ci sono, come sempre. Me ne devo andare. E invece no, il mondo spinge ancora sull’accelleratore e io sragiono. Pensa Nina, pensa. Perché sul sedile di lato c’è una vecchia scatola delle scarpe piena zeppa di flaconcini con le mie medicine? Non ho tempo per mettermi nuovamente a bestemmiare. Ne prendo una manciata, li infilo nei tasconi della vestaglia ed esco dalla macchina.

Salgo la rampa che porta in strada e anche se mi dico che non devo farlo, mi volto verso la casa. È lì. Non Jeff, ma il bambino. Anche se non è più il mio bambino. Perché mi ostino a chiamarlo il mio bambino? Non lo è. È in piedi dietro i vetri chiusi. Ma la saracinesca della sua stanza non era chiusa? Sì, lo era. O no? Non ci capisco più un cazzo, dovrei pensare e invece non so nemmeno più come mi chiamo. Pensa Nina, pensa. Mi controlla, quel tipo che si è infilato in casa mia, nella stanza di mio figlio. Col fiatone salgo la rampa e, ancora, ritorna quella sete bruciante di prima, di quando mi ero appena svegliata. Non posso fare a meno di attaccarmi al tubo in giardino. Bevo come un cane randagio, avida, il culo all’aria.

C’è un tipo, qui al paese, che mi deve un paio di favori. A suo tempo, quando eravamo appena venuti qui da Seattle e avevo perso il lavoro e mi ritrovavo un’altra volta chiusa in questo schifo di posto, ero caduta in un periodo cupo. Cercavo a tutti i costi qualcosa che mi tirasse fuori da quello stato ed era venuto fuori lui. Avevamo studiato insieme e lui, come me, era scappato e poi tornato qui. Alla faccia di Jeff, mi ero fatta consolare da lui per un paio di mesi, prima di troncare. Direi che ha un debito, anche se a distanza di anni. Lui ha qualche conoscenza e può forse aiutarmi. Per questo sono nuovamente in strada, perché ho paura, perchè nella camera del mio Nicolino c’è qualcuno che Nicolino non è; perchè Jeff forse è scomparso o forse è da qualche parte e sta per tornare e non è più lui; perché queste pastiglie che stringo nella tasca della vestaglia non sono le pastiglie che mi ha prescritto il medico, sempre che lo siano mai state. E sono per strada perché c’è questo mio vecchio amico che ha fatto bei studi, che era stato all’estero e poi è tornato qui e si è ritrovato bloccato pure lui e so bene che è diventato un topo di garage, perché si è costruito un laboratorio dove porta avanti i suoi studi ed esperimenti. Lo conosco da sempre e potrebbe dirmi che c’è in questo flacone, cosa è sta roba.

Il mondo ondeggia, o sono io che ho perso la spina dorsale?  È la prima volta, da anni, che non prendo le mie pastiglie per così tanti giorni consecutivi. Ad ogni passo aumenta la convinzione che Jeff non sia Jeff, che mi abbia tradito, e che abbia fatto qualcosa anche a quel ragazzino o che l’abbia sostituito con un altro, identico, con un sosia. Ho paura, ma non posso darlo a vedere. Devo sembrare una che passeggia, anche se sono in vestaglia e pigiama e con gli scarponi infilati al contrario che picchiano contro le dita. Non ho tempo per fermarmi e metterli nel verso giusto. Non so se mi stanno seguendo, se quel ragazzo che si è piazzato in casa al posto del mio Nicolino è sulle mie tracce. Il cielo è più profondo del solito, non è più la solita lastra opaca. Non lo è più, lo sguardo lo attraversa. Non una nuvola, in alto. Non una rana, qui in basso. Non una rana. Le avevo dimenticate, le rane. Dove sono? Perché il carrarmanto dei miei scarponi non le sbudellano? Perché non ce ne sono, di morte, ai lati della strada? Perché non ce ne sono più come prima, quanto tutte le strade ne erano piene come lo sono in autunno di foglie secche? Non sento più neppure quell’odore pungente di sangue misto a disinfettante che copre ogni altro odore. Qualcuno sta cucinando carne. Ho fame, ma adesso non ho tempo di mangiare. Incredibile, nemmeno una rana. È la prima volta che mi capita, da che ricordo, da che conosco Jeff. Ma che cazzo sta succedendo?

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