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ep.15 NO FUTURE

Introduzione di Caterina Corucci

Gli adolescenti sono misteriosi, hanno passioni, rancori  e incertezze che li rendono schivi. Qui a FN314 devono fare i conti anche con cose inspiegabili come le piogge di rane, le telefonate che cadono nel vuoto, qualcuno che scompare. Cerchiamo di capire cosa sente Greg, diviso fra incomprensioni familiari, primi turbamenti di cuore, e gli avvenimenti di un paese dove non tutto è proprio quello che sembra.

Buona lettura con il quindicesimo episodio della serie, rappresentato in copertina da un disegno di Rosario Gulli.

EPISODIO QUINDICI: NO FUTURE

di Ivan Nannini

(Greg)

L’autobus che sobbalza mi spinge a sedermi compostamente sul sedile. La mia testa che poco prima si poggiava delicatamente sul finestrino, adesso se ne sta in posizione verticale a fatica. Sento ancora quel brusìo, quello che fino a qualche istante fa mi cullava facendomi chiudere le palpebre più volte. È la fine di una mattinata come tante, iniziata con una brusca sveglia, acqua gelida sul viso, autobus e lezioni varie. Le solite stupide lezioni a dire il vero. Quel parlare odioso e stridulo della prof. di Storia, che con enfasi ci ha descritto un mondo terribile alle nostre spalle, lasciandoci intendere che quello è appunto il passato, perché il presente è fantastico e il futuro glorioso. Poi è arrivato il turno di quello di Fisica, un omone barbuto con la voce soffocata, così noioso che l’unica cosa da fare con lui è riuscire a nascondersi bene dietro al compagno di fronte per dormire. Poi un po’ di Storia dell’arte, con le sue regole, i suoi stili. Che a guardare fuori dal finestrino, osservando queste casupole a schiera, infilate qua e là tra le casette in pietra fatiscenti, mi chiedo dove siano finite quelle regole e quegli stili.

Comunque sia, adesso sono fuori. Fuori da quella gabbia di matti. E mentre il paesaggio scorre veloce, adesso che la strada è in discesa e il Bus viaggia a pieno regime nell’unico tratto senza buche, riesco a intravedere sui lampioni e su alcuni muretti di confine tra le varie proprietà abitative, il solito volantino. Sono un paio di giorni che se ne vedono ovunque, dentro e fuori dal paese. C’è una scritta grande in rosso sulla base e una foto stampata al centro. La foto ritrae la signora Teresa e sotto c’è scritto “SCOMPARSA”.

“Scomparsa…” penso tra me e me, “come Camilla, che da quel momento non si è fatta più viva né a scuola né in giro per il paese…”

Tiro fuori dallo zaino le mie cuffie e le collego al dispositivo per ascoltare la musica. Tutta roba sconsigliata e introvabile ai giorni nostri: brani dei Sex Pistols, Clash, Alice in Chains, e altre tracce scaricate clandestinamente con la mia attrezzatura. Poi mi frugo nelle tasche per trovare quella lettera. Sono giorni che la leggo e la rileggo, da quando Camilla me la consegnò sulla scalinata della scuola. Aveva un timido sorriso sul viso quel giorno, me la porse delicatamente come fosse stata una cosa rara.  Una busta ben chiusa con su scritto “per Greg”.

Conosco ogni parola del suo contenuto. Me ne rendo conto solo adesso leggendola di nuovo. La sua calligrafia sottile e delicata mi distende i nervi, e nel mio stomaco si forma uno strano formicolio ad ogni riga che scorro con lo sguardo.  La lettera non è altro che una sorta di dichiarazione di amicizia “speciale”. Così la descrive in una mezza paginetta. Dopodiché il ritmo cambia quando mi supplica di non infastidire Nello. E qui i miei nervi riprendono a vibrare. Poi si conclude con un timido “T.V.B”.

Un occhio sulla lettera, uno sulla strada. Devo scendere tre fermate dopo quella solita e non vorrei distrarmi rischiando di perderla. Ho informato prima di uscire i miei genitori, o meglio, quei due individui che abitano con me, che dopo la scuola sarei rimasto a studiare da un amico. In verità devo incontrare Juri al pub.

Eccolo, seduto su uno sgabello con un drink in mano. Lo osservo per qualche secondo mentre l’autobus riprende il suo cammino, poi mi avvicino alla porta a vetri del pub. Juri si accorge della mia presenza e mi fa cenno di aspettare, butta giù d’un fiato quello strano liquame verde, e frugandosi nelle tasche tira fuori un pugno di monete da gettare sul bancone prima di uscire.

“Ce l’hai?” mi chiede

“Si, ce l’ho.” Gli dico

“Bene, andiamo.”

Nel breve tragitto che porta al suo appartamento non incontriamo nessuno, si vede soltanto in lontananza un signore zoppicante. Juri si guarda attorno con fare ansioso, i suoi occhi  sgranati e pieni di venuzze ispezionano freneticamente un grosso mazzo di chiavi davanti al portone di casa. Nè io nè lui diciamo una parola fino a che non siamo entrati, poi lui tira un sospiro di sollievo.

“Cosa hai detto ai tuoi genitori?” mi chiede togliendosi la giacca.

Il fuoco nel camino è quasi spento e Juri gli da nuovo vigore spostando dei tizzoni e aggiungendo legna.

“Ho detto che sarei rimasto da un amico per studiare.” Rispondo.

L’appartamento è piccolo ma sembra accogliente nonostante il disordine, l’aria è viziata e dalla finestra qualche timido raggio di sole rende gli oggetti e la mobilia un po’ satinati, eterei. Juri osserva il fuoco per un attimo, poi si alza per sgranchirsi un po’. Le sue mani sono sporche di fuliggine, se le passa più volte sui pantaloni e si scompiglia un po’ i capelli.

“Hai fame?” mi dice

“Si”

Dal frigo tira fuori un po’ di cose, le osserva disgustato per poi rimetterle al proprio posto, poi lo chiude e si rivolge di nuovo a me, con un flacone, un pacchetto e una birra tra le mani.

“Ho solo delle uova, possiamo metterci sopra questo schifo di salsa piccante se vuoi.” Mi dice.

“Vanno bene le uova, senza salsa.”

Dopo qualche esitazione lascio cadere lo zaino in un angolo della stanza e vi appoggio sopra la giacca, poi mi siedo accanto al fuoco. Le mie mani si rianimano a quel tepore; e quello sfrigolio di uova sul fornello in cucina, insieme al loro profumo intenso, trasportano i miei pensieri fino alla mia prima infanzia, quando quelli che io considero i miei veri genitori si occupavano di me. Non che fossero fisicamente altre persone, guardando le foto nessuno noterebbe la differenza, solo che qualcosa in loro è cambiato. Le risate spontanee si sono trasformate con il tempo in sorrisi di convenienza e il loro genuino interesse nei miei confronti, sia per i miei atteggiamenti che per i miei turbamenti, in qualcosa di decisamente ordinario. Come fosse una sorta di routine il fatto di informarsi o pronunciare frasi come: “è una cosa normale alla tua età” oppure “sono marachelle adolescenziali”. Frasi fatte in risposta alle voci sui danni perpetrati in giro per il paese, ai tagli sulle braccia e nei polsi che spesso mi faccio con un coltello da cucina, e alle notti insonni passate a  singhiozzare o a sezionare qualche stupido bacarozzo trovato in giro per la casa. No, quelli non sono i miei veri genitori, e le mie mani che si chiudono e si aprono davanti al fuoco, e il sangue che scorre dentro le mie vene lo testimoniano. Io sono vivo, io sento, e li osservo.

Si chiude uno sportello in cucina e un attimo dopo compare Juri. Mi passa un piatto con due uova al tegamino che dispongo sulle mie ginocchia. Lui fa lo stesso e si stappa una birra che dimezza con una sorsata.

“Ne vuoi un po’?” mi chiede puntandomi in faccia il collo della bottiglia.

“Non mi piace.”

“Peggio per te” mi risponde versandomi dell’acqua in un bicchiere. “ho solo acqua di rubinetto oltre alla birra.”

Mi rendo conto di aver divorato il mio pasto in un baleno, Juri mi osserva sorpreso mentre si porta alla bocca il primo boccone. Per nascondere l’imbarazzo gli chiedo se vuole provare l’erba prima di pagare.

“Erba? intendi marijuana, non quella merda sintetica che vendono fuori da scuola?”

“Io fumo solo questa, vera marijuana coltivata.” Gli dico tirando fuori una busta da una delle tasche della mia felpa. Dall’altra faccio uscire le cartine e dei cartoncini per i filtri che gli passo distrattamente. Juri ingoia in un attimo il resto del piatto buttandolo giù con un sorso di birra e ci mettiamo al lavoro. La faccio accendere a lui, che aspira una grande quantità di fumo più e più volte prima di passarmela.  

Poco dopo i suoi occhi si distendono, ci ritroviamo davanti al fuoco come dei Sioux, a fumare il nostro Calumet della pace. È questa l’immagine che mi passa per la testa e che mi fa sorridere in un primo momento, e ridere di gusto poco dopo.

“Erano anni che non fumavo roba simile” mi dice strofinandosi la fronte con la punta delle dita prima di scoppiare a ridere a sua volta.

Passano i minuti, poi le ore. L’atmosfera si fa più cupa quando Juri mi parla della sua famiglia e del fatto che non vede la figlia da un sacco di tempo. “Sembra quasi che non esista nulla fuori da questo stupido posto” mi dice “le chiamate si interrompono senza che nessuno dall’altra parte risponda.”

Nei sui ricordi ci sono anche dei buoni momenti passati con lei e la sua ex, ma sono solo ricordi. Stessa cosa per i suoi genitori o per l’attuale compagna. Si alza in piedi e formula un numero sul cellulare. Niente, non succede niente, solo quella voce pacata e artificiale che ci informa che il numero selezionato non è raggiungibile. “Capisci cosa intendo?” mi dice con la voce impastata dalla birra e dall’erba.

Sul tavolo in salotto ci sono delle pillole, le osservo, sono le stesse che in molti qui in paese prendono sotto prescrizione dell’analista.

“Ti chiedi se le sto prendendo?” dice Juri come rimproverandomi per i miei pensieri. “Me le hanno consigliate un paio di anni fa, in una di quelle sedute obbligatorie che organizza lo stato centrale. Le prendo soltanto quando i miei nervi sono a pezzi e i miei sogni terrificanti.”

Il suo sguardo disteso di poco prima adesso si fa scuro e pesante, e i contorni del suo viso iniziano a vibrare mentre tutta la sua figura si sposta inesorabilmente di lato ad ogni occhiata che gli butto addosso. Mi manca l’aria, forse per il fuoco, forse per l’erba. Sento le gambe pesanti, tremolanti e instabili. Mi alzo per aprire la finestra cercando appigli per aiutare il mio scarso equilibrio.

L’aria fresca e pungente mi assale come un’onda improvvisa sul bagnoasciuga. La finestra spalancata mostra in tutto il suo splendore il paesaggio, la linea marcata dei tetti delle case, i campi circostanti, e quel tiepido sole in lontananza che sembra una piccola luce rossastra a due dita dalla linea dell’orizzonte. Juri si avvicina, lo sento inspirare ed espirare più volte mentre si scompiglia di nuovo i capelli con le mani sporche di carbone.

Restiamo immobili per un po’ ad osservare, ognuno a seguire ciò che vuole. La signora Renata alla finestra, il tizio in strada con i cani, Nicolino che si lega una scarpa su un muretto. Ci sono capannelli di persone che parlano, qualche auto che passa. Tutto nella norma visto da quassù. La gente non sa niente, non si immagina neanche cosa potrebbe accadere. Penso alla riunione di ieri sera con gli altri ragazzi del gruppo, alle informazioni che abbiamo raccolto sulla piattaforma clandestina che chiamiamo “sottosopra”. Un evento catastrofico in data da verificare, forse una violenta pioggia di rane o qualcosa di simile, o forse una delle tante notizie false che qualche idiota sparge sul web? Per l’informazione ufficiale non c’è dubbio: una perenne primavera, un’epoca d’oro per l’umanità.

“A volte penso che sia tutto un sogno.” Dico a bassa voce, “le persone lì fuori, noi, tutto quello che c’è intorno, una sorta di racconto già scritto, o che qualcuno sta scrivendo. Mi sento come  una pedina in una scacchiera nell’attesa che una mano gigantesca si occupi di me.”

“Magari siamo già tutti morti e questo è il paradiso. O forse  l’inferno.” dice Juri, poi resta in silenzio al mio fianco. La pallina infuocata è ormai scomparsa dietro le colline, la gente se n’è tornata in casa e la grande mano si appresta ad annerire il paesaggio con il suo enorme carboncino.

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