di Caterina Corucci
Due mesi fa stavo affacciata alla finestra della casa natale Modigliani, e nel palazzo di fronte vidi una targa: Qui nacque Piero Ciampi (Livorno 1934 – Roma 1980) poeta e cantautore “fino all’ultimo minuto”. Lo ammetto, Ciampi non lo conosco, e forse è grave, comunque il fatto che sia nato a pochi metri da dove è nato Amedeo Modigliani mi incuriosì. Ho cercato informazioni: internet, biblioteca, c’è davvero poco su di lui, quello che si trova è soprattutto quello che ne hanno detto gli amici.
Allora sono andata a rompere le scatole a uno che non solo sa molto di lui, ma lo ha messo nella sua vita e nei suoi libri come ispirazione, personaggio e colonna sonora.
Giacomo Guantini è un amico, ha fatto il vinaio e ora fa altro, ma son tutte coperture, in realtà scrive romanzi pieni di Livorno e di poesia. Ho cominciato a piombargli in negozio a giorni alterni, e fra un cliente e l’altro mi son fatta raccontare il suo Piero Ciampi.
Il negozio è pieno strapieno di cose, anche di quelle che non ci sono; anche quelle che le cerchi e potresti giurare che no, di quella roba lì non c’è niente, invece lui la trova lo stesso. Infatti mi sistemo seduta su uno scaleo, fra un niente e le penne colorate, e Guantini comincia col dirmi che sì, c’è la targa in Via Roma, ma c’è chi afferma che sia nato in Via Pellettier, dove suo padre aveva una bottega di pellami.
Controllo subito. Vero, su internet si trova questa informazione, ma anche quella di Via Roma. Insomma c’è tanto di targa, ma Ciampi è quasi inafferrabile, e in ogni caso è bello credere che Piero e Amedeo potrebbero aver comprato il pane nello stesso fornaio lì sotto. A proposito del nome, Guantini mi fa notare che Piero contiene un dittongo, e Amedeo uno iato. Hanno tutti e due molte vocali, ma le hanno utilizzate in maniera diversa. Vorrà dire qualcosa, oppure niente.
In fondo, i due erano per molti aspetti simili ma diversi: entrambi costantemente senza soldi e senza regole, innamorati delle donne ma soprattutto della bottiglia. Affascinanti, personaggi letterari a tutto tondo. Entrambi avevano poi questa cosa di lasciare capolavori sui tovagliolini di locali spesso luridi e deserti: poesie l’uno, disegni l’altro.
Ma Ciampi era in costante contraddizione: sensibile ma tendente al litigio, rissoso eppure ironico. Era totalmente inaffidabile, incapace di inserirsi in una società dove bisogna andare a lavorare per mantenere la famiglia, poteva spendere gli ultimi soldi in sigarette o giocarseli d’azzardo. Oppure darli al primo barbone che trovava. Dicono di lui che non sapeva stare al mondo.
Secco come un’uscio, stropicciato eppure sempre elegante, di quell’eleganza da esistenzialista francese. Di una cosa era certo, del suo talento, che fosse riconosciuto o no. Cantava le sue poesie con quella voce rasposa che metteva i brividi. Ma ai concerti spesso si presentava alticcio, a volte maltrattava il pubblico. Era come se dicesse, io sono questo, amatemi o odiatemi per quello che sono. Il suo stile crepuscolare e decadente era quello che andava di moda, all’epoca, nella scuola dei cantautori e fra gli amici: Gino Paoli, Tenco, De Andrè, Bindi. Eppure loro diventarono celebri, lui restò quasi anonimo. Troppo impossibile il carattere, troppo ruvidi i testi, poco orecchiabili le musiche. Solo una nicchia lo ha molto amato e ancora lo declama. Ascoltare “Ha tutte le carte in regola (per essere un artista)” è forse il modo migliore per capirlo.
Il primo libro di Guantini, “La terza strada”, è affollato di soggetti come Piero, poeti, cantanti, gente che beve e che fuma, personaggi inafferrabili, gatti randagi in giro per il mondo. Lo scrittore mi confessa che se non avesse conosciuto Ciampi, o meglio, se Ciampi non lo avesse avvicinato a Céline, probabilmente avrebbe scritto in maniera diversa. Invece Ciampi e il suo mondo gli si sono attaccati addosso, come una pelliccia di leone con l’innesto di una tigre. Dice proprio così, citando parole della canzone “Te lo faccio vedere chi sono io“, che Ciampi scrisse per sua moglie, una regina costretta a vivere in ristrettezze quasi per un disguido.
… E che sono quei cenci che hai addosso?!
Ma come! Tu sei la “mia”…
e stiamo in questa stamberga coi cenci addosso!
Ma io adesso esco, sai che cosa faccio?
Ma io ti porto una pelliccia di leone con l’innesto di una tigre.
Te lo faccio vedere chi sono io!
Senti, intanto però c’è un problema:
siccome devo uscire
mi puoi dare mille lire per il tassì
in modo che arrivo più in fretta
a risolvere questo problema volgare che abbiamo? …
Ciampi viaggiò molto, per rincorrere amori e ispirazione. Ebbe un periodo genovese, dove conobbe Gino Paoli che lo presentò a Ennio Melis della casa discografica RCA. Da Melis ottenne una cifra pazzesca come ingaggio. E lui prese i soldi e sparì, a cercare la moglie in Inghilterra.
Poi, come Modigliani, ebbe un periodo parigino, e fu proprio nella Parigi di Georges Brassens e Yves Montand, di Céline e Sartre, che si formò una strana figura di cantore-poeta. In Francia lo chiamavano Piero Litalianò con l’accento sulla o. Ma per i francesi era troppo italiano. E quando tornò, per gli italiani era troppo francese.
Il secondo libro di Guantini, “Elevatevi tutti”, è pieno di Cèline e di luoghi livornesi dove Ciampi ha lasciato il segno: “in via dei Terrazzini ci nascevano i pittori… ci passavano i poeti, fra le genti della strada e i loro inutili discorsi, si sedevano, privi di interesse, a bere vino fresco come sempre, a primavera”. In via dei Terrazzini, quel vinaio esiste ancora.
Intanto nel negozio entrano un paio di clienti e io aspetto, sperando che Guantini non mi si ghiacci. Escono. Lui non s’è ghiacciato, e parliamo del suo terzo libro, “Aldo, una vita davvero”. Qui Ciampi non è solo ispirazione, è un personaggio, e lo infila in mezzo ai versi, che stanno in mezzo alla prosa, in mezzo alla biografia di Aldo Mazzi.
“In baracchina discute coi pittori e beve / Lui è l’arte, fra di loro. / Così evidente, che non lo sa nessuno. /E’ un classico, a Livorno, dove si è troppo dediti all’aperitivo e, già da primavera, che è il periodo, si mangia i ricci crudi col vino bianco fresco e ci puoi dire quello che ti pare, tanto noi ci s’ha i frutti di mare. I pittori si abbronzano e lo invitano ai Casini nel disordine di quelle stanze alte come chiese che s’è detto. Lui canta e scherza come un bimbo. Io lo vorrei solo abbracciare.”
Piero era arrabbiato per tre buoni motivi: sono livornese, anarchico e comunista. La stessa frase è scritta sulla quarta di copertina dell’ultimo libro di Guantini, “Prima del blu”, dove il protagonista Nicchero Bardòcci è un ragazzotto con una chitarra e la voglia di sparire. Difatti alla fine sparisce. Come Ciampi, che ogni tanto faceva perdere le tracce ma a Livorno ci tornava sempre, fino a quel giorno che prese un treno senza sapere che non sarebbe più tornato. Morì di cancro a Roma, con il letto pieno di fiori portati da ammiratori ritardatari. Più o meno come successe a Modigliani.
Io non ho lasciato il mio cuore / A San Francisco / Io ho lasciato il mio cuore / Sul porto di Livorno / Le luci si accendevano sul mare / Era un giorno strano: / Mi rifiutai di credere che fossero lampare”.
In negozio arriva un fornitore e Guantini si dà da fare con gli scatoloni. – Scusa – mi dice – ma la scrittura si nutre anche di casse scaricate. Intanto vatti a prendere un caffè, dopo ti dico altre due cose.
Mi ripresento dopo un po’ ma trovo il negozio chiuso anche se non è ancora orario di chiusura. C’è un cartello TORNO SUBITO. Aspetto dieci minuti, venti, mezz’ora. Niente, sparito, pure lui.
“In fondo parliamo solo di leggenda e la leggenda lascia tutto un po’ così. Basta non crederci. Questa storia è roba mia, l’ho scritta io, è inventata. Nicchero Bardòcci non può essere esistito veramente. A Livorno se ne parlerebbe…” (Giacomo Guantini)
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