di Caterina Corucci
(in copertina: particolare di un’opera di Ivan Nannini)
In quinta elementare il programma di italiano prevede la “Poesia”, e nella classe dove insegno, fin da settembre abbiamo iniziato a lavorare con le metafore, le assonanze, l’onomatopea. Abbiamo giocato con i calligrammi, abbiamo letto poesie di Piumini, Rodari, Pascoli e Trilussa e ne abbiamo inventate di nostre. Ci siamo cimentati con la parafrasi finché, per chiudere in bellezza l’argomento, io e la mia collega abbiamo deciso di proporre dei versi alquanto strani.
Così oggi lei ha portato in aula il libro “Gnòsi delle fànfole” di Fosco Maraini e io ho letto la prima poesia che apre il volume.
Poi, davanti alla cattedra, ho aspettato le loro reazioni.
Silenzio (in una classe dove il silenzio non è una cosa così facile da ottenere). Ventotto paia di occhi sgranati, alcune sopracciglia sollevate, altre aggrottate, qualche bocca leggermente aperta.
Dopo un po’ i bimbi hanno cominciato a cercarsi fra loro con gli sguardi, a fare sorrisini, ammiccamenti, con volti pieni di luce.
“Dunque”, ho chiesto, “di cosa, o di chi, stiamo parlando?”
Qualche secondo ancora di silenzio e poi voci, tante, tutte insieme: “è un uomo – è un animale – esiste? – non esiste? – non si capisce… – ma cos’è? – ce lo puoi rileggere?”
Senza dare tante spiegazioni abbiamo consegnato a ciascun bambino una pagina con il testo stampato, e io l’ho riletto chiedendo loro di seguirmi sul foglio.
Dopo la seconda lettura la mia collega ha fatto partire alla lavagna interattiva il video del grande Gigi Proietti in una bella recitazione de Il lonfo che ha catturato tutti.
Poi, abbiamo cominciato a spiegare. Abbiamo chiarito che si tratta di poesia metasemantica, in cui i termini inventati suggeriscono parole e immagini che possono essere diverse da persona a persona, per ognuno che ascolta la poesia, perché vanno a pescare nell’immaginario e nel bagaglio di conoscenze, sensazioni ed emozioni personali.
Insomma abbiamo cercato di rendere, con poche parole semplici, quel che Fosco Maraini ha scritto nell’introduzione del suo libro, che già da sola vale quasi tutto il volume:
«Il linguaggio comune, salvo rari casi, mira ai significati univoci, puntuali, a centratura precisa. Nel linguaggio metasemantico invece le parole non infilano le cose come frecce, ma le sfiorano come piume, o colpi di brezza, o raggi di sole, dando luogo a molteplici diffrazioni a richiami armonici, a cromatismi polivalenti, a fenomeni di fecondazione secondaria, a improvvise moltiplicazioni catalitiche nei duomi del pensiero, dei moti più segreti. Potrei anche aggiungere che la poesia metasemantica è fortemente bipolare. Tutta la poesia – si capisce! – è bipolare. Hai un testo e hai un lettore; dalla crasi dei due sprizzano, oppure no, delle scintille.»
E ancora:
«Nella poesia metasemantica il lettore deve contribuire con un massiccio intervento personale. La crasi non è data dall’incontro con un oggetto, bensì, piuttosto, dal tuffo in un evento. Il lettore non diventa solo azionista del poetificio, ma entra subito a far parte del consiglio di gestione e deve lui, anche, provvedere alla produzione del brivido lirico. L’autore più che scrivere, propone. Se è riuscito nel suo intento, può dire di aver offerto un trampolino, nulla più.»
Nella poesia teorizzata dal Maraini, gli articoli, le congiunzioni, le preposizioni e alcuni avverbi sono italiani, ma i nomi, i verbi e gli aggettivi no. «O almeno così ci sembra», riporta il dizionario Treccani, «perché in linea teorica vatercare e gluire potrebbero essere verbi della nostra lingua. Eppure, anche se la parola lonfo da sola non ci dice niente, capiamo dal contesto che deve trattarsi di un animale, un animale piuttosto pigro in verità, che di solito non fa tante cose e che si attiva solo quando soffia un certo vento che si chiama bego. Come facciamo a capire che il lonfo è un animale? Forse perché gluisce, come la mucca muggisce, il cavallo nitrisce e il leone ruggisce; o forse perché, se si muove quando si alza il vento, vuol dire che vive all’aperto e non in una casa come noi uomini. Il poeta ha disseminato nei suoi versi tanti piccoli indizi che, messi tutti insieme con l’aiuto della logica e della grammatica, possono farci capire molte cose. Certo, com’è fatto di preciso un lonfo non lo sapremo mai»…, ma ce lo possiamo immaginare.
Ecco perché, tornando al nostro lavoro con gli alunni, dopo aver riflettuto su alcune parole particolarmente strane o evocative, la mia collega ha detto: “E adesso, ciascuno di voi disegni il proprio lonfo!”.
In pochi sono partiti subito a disegnare. La maggior parte non sapeva bene cosa immaginarsi. Molti hanno dovuto rileggere la poesia più volte e farsi suggerire qualcosa dalle parole.
Ma, alla fine, sono venuti fuori dei lonfi meravigliosi.
Poi, abbiamo invitato i bambini a pensare al carattere che potrebbe avere questa strana creatura, a cosa potrebbe fare nella vita, per quel che si può indovinare dalla poesia.
Così son venuti fuori lonfi vegani, pizzaioli, lonfi rock, lonfi secchioni, nerd, lonfi feroci. A un certo punto una bimba ha detto che il lonfo è indocioso. Allora abbiamo cominciato a inventare parole alla maniera di Fosco Maraini. Dunque il lonfo è diventato verdaiolo invece di vegano, e napulello invece di pizzaiolo; il lonfo ha fiducità nella gente, ma resta scorba scorba. A scuola è secchioso, silentino, ma se gli rubi la merenda diventa ferociraptor e fucileggia. Il lonfo inoltre furba furba per non fare la lezione, ma tutto sommato è bonaretto e giochelloso.
E se a qualcuno venisse voglia di sapere cosa vuol dire “Gnòsi delle fànfole”, beh…, “gnòsi” è facile: è una conoscenza superiore di origine addirittura divina, ma per “fànfola”, bisogna rifarsi al sito https://unaparolaalgiorno.it/ (che segnalo agli appassionati della parola) il quale, dopo aver riportato che si tratta di un componimento poetico con determinate particolarità, ce ne dà addirittura l’Etimologia : inventato di sana pianta da Fosco Maraini, col suo libro “Gnòsi delle fànfole”.
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