di Marco Morselli
Adattare un romanzo per il cinema è sicuramente un processo molto complesso, in quanto implica non soltanto la traduzione di parole in immagini, ma anche una sintesi ed una vera e propria rielaborazione della narrazione originale. Il romanzo di per sé è un’opera che offre una libertà impensabile per il cinema: un autore può dilungarsi nei pensieri e nelle vicende dei suoi personaggi per centinaia di pagine, entrare nei dettagli di ogni singola scena, soffermarsi su ogni minimo particolare, perdersi nelle digressioni narrative e muoversi nella storia dilatando i tempi in maniera a lui più congeniale. Al contrario, il regista (e con lui lo sceneggiatore) ha dei limiti di tempo piuttosto definiti, deve seguire un ritmo differente e soprattutto deve considerare la necessità di coinvolgere lo spettatore attraverso mezzi visivi e sonori, che nulla hanno a che fare con la scrittura.
Il passaggio dalla pagina allo schermo impone dei compromessi: alcune trame o sottotrame vanno riviste o addirittura tagliate, certi personaggi possono essere ridimensionati o del tutto eliminati, il linguaggio visivo deve trovare modi per comunicare ciò che nei romanzi è molte volte espresso attraverso la narrazione interna. Le difficoltà di adattamento sono molteplici: come si può rispettare lo spirito del libro e al contempo scoprire una nuova voce cinematografica? È più importante mantenere l’integrità della trama o creare una versione più efficace per il grande (o piccolo) schermo?
Sono tantissimi gli esempi che possiamo considerare quando parliamo di questo argomento spinoso che divide da sempre il pubblico dei lettori-spettatori. E quando si tratta dei nostri romanzi preferiti, è difficile assistere passivamente alla rivoluzione creativa di una trama che ci ha accompagnato per tanti giorni e tante pagine. Ci aspettiamo di vedere finalmente che faccia hanno i personaggi a cui ci siamo affezionati, perché ciascuno di loro fa parte di un delicato mosaico in cui ogni tessera per noi è fondamentale, e tutte le vicende che li riguardano. Ma spesso, o quasi sempre non è così, e ci arrabbiamo: il film non è come il libro, il libro è molto meglio! Manca quella scena o quel personaggio! Quando in realtà dovremmo persino rallegrarcene. Prendiamo, per esempio, Anna Karenina di Tolstoj e pensiamo a quanti adattamenti ha avuto sia sul grande che sul piccolo schermo, dal film muto di Martin Garas di soli 84 minuti (1918) a quello di Joe Wright (2012). Chiediamoci se in un paio d’ore, o poco più, un regista sarebbe in grado di condensare tutto quell’intreccio drammaturgico di quasi mille pagine popolato da decine di personaggi complessi e sfaccettati, di ricreare ogni singola scena, ogni dialogo. Se anche solo ci riuscisse, ci manderebbe il cervello in fumo. Che ci piaccia o meno, i migliori adattamenti sono quelli che si discostano di più dalla complessità del romanzo, che lo rielaborano seguendo una linea ben precisa, ne condividono la premessa ma al tempo stesso individuano un elemento chiave e lo sviluppano in una sceneggiatura coerente ed equilibrata.
Un caso esemplare è sicuramente The Shining di Stanley Kubrick, tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King. Due opere sontuose per il loro peso specifico, l’uno nel cinema, l’altro nella letteratura. È emblematico che il film di Kubrick sia considerato un capolavoro nel suo genere e non solo un semplice adattamento.
Dal romanzo di Stephen King al film di Stanley Kubrick
Il romanzo The Shining, uscito nel 1977, è senza dubbio uno dei più celebri lavori di Stephen King e una delle sue storie più intense dal punto di vista psicologico. La vicenda di Jack Torrance, aspirante scrittore che accetta un lavoro come custode durante la chiusura invernale dell’Overlook Hotel, un enorme e isolato resort di montagna, e della sua follia alimentata dalla gabbia psicologica che l’hotel stesso si rivela essere, mentre suo figlio Danny si scopre dotato di poteri paranormali (il famoso luccichio, lo shining appunto) e inizia a sentire presenze maligne nell’edificio momentaneamente disabitato.
Quando Kubrick decide di adattare The Shining per il grande schermo, nel 1980, si trova a fare delle scelte che segnano una netta divergenza dalla visione di King. E questo non soltanto per ragioni narrative, ma anche per lo stile che vuole imprimere al film e per il modo in cui la tensione e il terrore vengono costruiti.
Dal punto di vista della trama, il film segue abbastanza il percorso del romanzo: l’inesorabile declino verso la pazzia di Jack e l’elemento soprannaturale che ruota intorno a Danny restano gli elementi chiave nella storia. Il regista decide di mantenere quindi la struttura di base del romanzo e alcuni dei suoi momenti più iconici: il labirinto, la scritta ‘redrum’ e l’escalation violenta di Jack. Ma è nella psicologia dei personaggi e nella rappresentazione dell’horror che emergono le principali differenze.
Visioni artistiche a confronto
Le differenze tra il romanzo di King e il film di Kubrick sono tante e significative. Lo scrittore critica pesantemente fin da subito la versione cinematografica e accusa più volte il regista di aver tradito il senso della storia. Stephen King concepisce The Shining come una intensa esplorazione psicologica di un uomo che sprofonda nello squilibrio mentale, fra traumi del passato, alcolismo e frustrazione personale. Jack Torrance nel romanzo è un personaggio tormentato e contorto, inizialmente ben intenzionato e positivo, ma che presto finisce con il soccombere, gradualmente, ai suoi demoni interiori e alle forze soprannaturali del luogo in cui va ad abitare. Nel film Kubrick mostra un protagonista che fin dalla prima scena inquieta sia con lo sguardo che con la voce. Il suo Jack Torrance è già sul limite della pazzia, un soggetto borderline pronto ad esplodere da un momento all’altro. Non a caso per impersonarlo sceglie proprio Jack Nicholson, la cui interpretazione poderosa e disturbante in Qualcuno volò sul nido del cuculo è ancora molto viva nel pubblico. Il passato di Torrance, la sua dipendenza dall’alcol e la sua fragilità sono appena sfiorati, quello che fin da subito cattura emotivamente lo spettatore è il senso di minaccia e di inquietudine che alleggia intorno a Jack. La sua trasformazione da uomo instabile a maniaco omicida avviene in tempi molto più rapidi e senza quella lunga e paziente introspezione che King dedica al suo protagonista nel romanzo. Non va dimenticato che si tratta di un film di poco meno di due ore e mezza, con una sceneggiatura di 148 pagine (alla cui stesura contribuisce la scrittrice Diane Johnson) contro le 447 del romanzo.
Un’altra differenza sostanziale è il trattamento dell’elemento soprannaturale. Per Stephen King l’albergo è chiaramente maledetto, e le sue forze paranormali giocano un ruolo decisivo nel deterioramento mentale di Jack. Ma per Kubrick è più importante giocare sul filo dell’ambiguità: l’hotel non è un luogo esplicitamente infestato, ma potrebbe esserlo, così come potrebbe essere il frutto della mente malata di Jack. Il regista intende ricreare un clima angosciante e misterioso, senza offrire troppe spiegazioni. Inserisce poi l’hotel e i personaggi in una bolla isolata dal resto del mondo, creando un senso di oppressione e di inquietudine che accompagna il film fino alla fine, laddove nel romanzo i protagonisti si muovono in un ambiente più aperto e popolato, come il villaggio. E poi gli spazi, enormi, freddi ed esteticamente disturbanti nell’Overlook Hotel del grande schermo (il Timberline Lodge sul monte Hood in Oregon per gli esterni, l’Ahwahnee Hotel a Yosemite per alcuni interni) si contrappongono a quelli più contenuti, quasi accoglienti del romanzo, ispirati allo Stanley Hotel ad Estes Park, in Colorado. Qui sono le presenze maligne a spaventare il lettore, nel film è con l’atmosfera visiva dei vuoti che Kubrick riesce a tenere alta, spesso altissima la tensione.
Lo stile: narrazione e cinema
Stephen King è noto a tutto per il suo stile narrativo ricco di dettagli psicologici e per l’abilità di scavare a fondo nella psiche dei suoi personaggi. The Shining è un’ulteriore esplorazione dei pensieri e delle emozioni umane. La graduale discesa nella follia di Jack Torrance, l’intensità drammatica di Danny e Wendy, intrappolati in una tragedia che non gli appartiene ma che li divora lentamente pagina dopo pagina. E proprio il personaggio di Wendy sarà l’oggetto di una delle critiche più aspre contro Kubrick, accusato di non aver indagato la sua profondità psicologica.
Ma il regista preferisce mettere in scena l’orrore tramite il linguaggio visivo e il controllo meticoloso dello spazio. Lo stile distaccato, geometrico con cui Kubrick sceglie di raccontare la storia unito alla regia che si muove su spazi ampi enfatizzandone la vastità e mettendoli in contrasto con la piccolezza fisica dei personaggi, isolati e persi nella follia di Torrance. Inquadrature simmetriche e lunghi piani sequenza aiutati dalla Steadycam appena inventata creano un senso di freddezza e di alienazione che aumenta l’angoscia dello spettatore, preparandolo a un terrore che prima o poi si manifesterà in tutta la sua potenza.
Anche nel finale i due capolavori si discostano incredibilmente. King sceglie di distruggere l’hotel in un’esplosione, che porta via con sé tutte le presenze che lo abitano, Kubrick preferisce far morire Jack Torrance congelato nel labirinto, lasciando l’Overlook Hotel intatto e mantenendo un finale più aperto e misterioso in linea con l’ambiguità che caratterizza tutto il film.
La complessità dell’adattamento
Il caso di The Shining è paradigmatico delle sfide che si incontrano nel tradurre un libro in un film. Kubrick non cerca di ricreare fedelmente il romanzo, anche perché non potrebbe, ma di dare una sua interpretazione personale. Sceglie un aspetto emblematico e ci costruisce una linea narrativa su cui devia la trama del libro, con le inevitabili conseguenze su quest’ultima. Adattare un romanzo come questo non significa soltanto ridurre una narrazione complessa a una durata di due o tre ore, ma anche trasformare le modalità stesse di espressione: i pensieri dei personaggi diventano immagini, le descrizioni dettagliate si condensano in singole scene e le ambiguità devono essere comunicate visivamente o attraverso dialoghi sintetici e veloci. Kubrick sceglie di privilegiare l’evocazione del terrore psicologico tramite il potere dell’immagine, magnificata da una scenografia e una fotografia magistrali, mentre King può adoperare soltanto la parola scritta, che comporta, per forza di cose, una narrazione più esplicita delle dinamiche emotive e psicologiche della storia.
Lo stesso King fin da subito propone una sua sceneggiatura a Kubrick, che però non accetta. Da qui scaturisce il fastidio dello scrittore che negli anni ’90 riproporrà una sua versione più “autentica” per un prodotto, questa volta televisivo, diretto da Mick Garris: una miniserie di tre puntate (Stephen King’s The Shining) che esce nel 1997 per la ABC e che promette, con una durata molto più ampia rispetto al film (quasi cinque ore, oltre il doppio), uno sviluppo molto più aderente al romanzo. Nonostante la buona accoglienza da parte del pubblico e della critica, la serie televisiva viene ben presto dimenticata, al contrario del film di Kubrick, considerato uno dei più grandi capolavori della storia del cinema, oltre che un classico del genere horror. Il lavoro di Garris, scritto e supervisionato da King cerca di tradurre in immagini l’intero sviluppo delle vicende del romanzo, seguendone la cadenza. Un progetto ambizioso, quasi irreale e forse insensato il cui risultato non è minimamente comparabile alla tensione scenica costruita intorno a Jack Nicholson, Danny Lloyd e Shelley Duvall da Kubrick. È proprio la reinterpretazione creativa che il regista inglese fa dell’opera di Stephen King a rendere la sua opera un capolavoro a sé stante. E questo non fa altro che dimostrarci quanto un adattamento cinematografico non solo possa, ma addirittura debba allontanarsi dall’opera originale, pur mantenendone l’essenza, se vuole essere un buon prodotto.
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