di Marco Morselli
Ho scoperto Banana Yoshimoto come forse la stragrande maggioranza dei suoi lettori, in piena adolescenza. Avevo quindici anni e un sabato pomeriggio, mentre scorrevo con lo sguardo le costole della sezione romanzi stranieri contemporanei della libreria sotto casa, mi saltò agli occhi quel Kitchen, con la copertina un po’ buffa, totalmente bianca in cui compariva la protagonista del film che ne era già stato tratto in Giappone. Aveva la faccia simpatica, e sul retro una frase di una semplicità assurda: “Non c’è posto al mondo che io ami più della cucina. Non importa dove si trova, com’è fatta, purché sia una cucina, e io possa cucinare, sono felice.” Non ricordo di averci pensato più di tanto, lo portai subito a casa e lo divorai in un giorno. Fu il mio battesimo nel mondo della letteratura giapponese. Di lì a poco avrei scoperto Yukio Mishima, citato nella prefazione da Giorgio Amitrano, traduttore del romanzo e il giovanissimo Haruki Murakami, ancora poco popolare dalle nostre parti. Per i lettori più esperti è evidente fin da subito che lo stile della Yoshimoto non rispetti proprio i canoni del romanzo classico giapponese. Ma quella leggerezza unita ad una certa brevità nel raccontare storie impegnative, che è più tipica del genere manga, costituisce proprio la cifra che rende la scrittrice una delle più apprezzate sia in patria che fuori, soprattutto dal pubblico giovanile. Di sicuro Kitchen, uscito in Giappone nel 1988, diventa un caso letterario che divide la critica e, secondo alcuni, contribuisce a rianimare la letteratura moderna del Sol Levante trasportandola in una nuova contemporaneità.
Banana genshō (il fenomeno Banana)
Banana Yoshimoto nasce a Tokyo il 24 luglio 1964 come Mahoko, ma deciderà di proporsi al pubblico con uno pseudonimo un po’ curioso, perché, a detta sua, è “carino” e “androgino”, ma anche perché le ricorda i fiori rossi del bijinshō (red flower banana) e il poeta Bashō che nel XVII secolo sceglie di farsi rappresentare dal nome dell’albero di banane. Figlia di un importante intellettuale, scrittore, critico e filosofo Takaaki Yoshimoto e sorella di Haruno Yoiko, nota fumettista, nel suo ambiente familiare respira quindi sia l’aria della tradizione letteraria del mondo classico sia la brezza più irriverente dello shojo manga. Nei suoi vent’anni si mette a scrivere mentre lavora in un golf club, e nel 1988 esce Kitchen. L’accoglienza del pubblico è decisamente calorosa, in particolare tra i più giovani, che saranno sempre il target preferito della Yoshimoto. Lei stessa dichiara in più occasioni di parlare ad una fascia di età che va dai quattordici ai trent’anni, una lunghissima generazione di adolescenti a cui si uniscono, comunque, lettori più grandi, perché i temi sono trasversali e comuni in tutti i momenti della vita. Mikage è una ragazza orfana che vive con i nonni, dorme in cucina, su un futon accanto al frigorifero, e qui crea la sua comfort zone. La passione per il cibo e per l’atto stesso del cucinare le nasce proprio così. La scomparsa della nonna la porterà a trasferirsi in casa di un amico, che ha una madre un po’ particolare, e lì finirà per dormire su un lungo divano bianco con alle spalle una vetrata senza tende e il riflesso delle mille luci di Tokyo illuminerà i suoi sogni. “L’essenza della vita è la solitudine, che cosa altro potremmo mai fare? Siamo nati soli e moriremo soli.” Ma la storia di Mikage è al contempo piena di speranza, e la bellezza che è capace di trovare nelle piccole cose, come nella preparazione di un cibo che richiede tempo e concentrazione, diventa un’opportunità per trovare conforto. La solitudine esistenziale che si dipana per tutto il romanzo è trattata con una delicatezza e una dolcezza che lasciano di stucco un lettore abituato a romanzi “più classici”. La Yoshimoto non inventa nulla di nuovo, sia chiaro, ma di sicuro è capace di portare questa leggerezza stilistica al suo punto più alto, quasi ignorando, e non senza una certa eleganza, la dissonanza tra stile e tema. È qui che la critica si spacca: se da una parte è apprezzata per la sua capacità di catturare le emozioni più intime e universali grazie ad una scrittura semplice e accessibile, dall’altra è aspramente criticata per il trattare argomenti complessi con troppa superficialità. Eppure Kitchen assicura all’autrice riconoscimenti importanti: il sesto Kaien Newcomer Writers Prize, l’Umitsubame First Novel Prize e il sedicesimo Izumi Kyoka Literary Prize.
Sulla stessa struttura narrativa, Banana Yoshimoto costruisce altri due successi come Tsugumi (1989) e Amrita (1994), che insieme a Presagio triste (1988), Sonno profondo (1989), N.P. (1990) e Lucertola (1993) vanno a consacrare la scrittrice come una tra le più popolari al mondo. Il pubblico si fidelizza e la Yoshimoto conferma la sua cifra letteraria. “La felicità è questo, pensai. Solo questo. Non è qualcosa di grande, come ci si potrebbe aspettare, ma è fatta di piccole, bellissime cose che appaiono all’improvviso.” Il messaggio di speranza che accompagna una storia intrecciata intorno alla malattia in Tsugumi è ormai un refrain importante. La bellezza che la Mikage di Kitchen trova nell’affondare le mani in un impasto o nel bollire un brodo di miso, in Tsugumi esplode in una felicità improvvisa attorno a momenti molto ordinari e intimi. “La vita non è altro che un susseguirsi di momenti, alcuni dei quali brillano come stelle” scrive in Amrita: il tempo passa inesorabile e il presente è fatto di tante minuscole frazioni della cui preziosità dobbiamo saper godere il più possibile. Qui un approccio più complesso ai temi della memoria e dell’identità si fa più pregnante.
Il mondo degli spiriti
Proprio con Amrita Banana Yoshimoto comincia a sperimentate trame più articolate e personaggi più sfaccettati. E lo fa in una famiglia non tradizionale la cui vita scorre piuttosto banalmente in una Tokyo sempre uguale a se stessa, quando inserisce un elemento che ricorrerà sempre più spesso nella sua narrativa; il soprannaturale. Un fratellastro undicenne con poteri paranormali che consente l’entrata in scena di personaggi misteriosi provenienti da un’altra dimensione. Il mondo degli spiriti è comunque un topos letterario abbastanza presente nella cultura giapponese. Le credenze sui fantasmi sono molto diffuse anche nel Novecento, e nutrono l’immaginario di molti scrittori, registi e fumettisti. Si tratta per lo più di spiriti che interagiscono con i desideri e i comportamenti, buoni e cattivi, degli esseri umani. Ad un’azione malvagia, uno spirito risponde con una piccola o grande vendetta, una sorta di karma. Se si desidera qualcosa, l’uso di una bambolina di carta e precisi rituali possono ingraziarsi le forze che governano il mondo. Sono i kami, che abitano in tutte le cose, animate o inanimate, che vivono nella natura e garantiscono l’armonia e l’equilibrio tra codesta e l’uomo. Ma esistono anche spettri e fantasmi vaganti, spiriti inquieti che si impossessano delle persone e della loro anima. E Banana Yoshimoto cresce in un ambiente che, anche solo timidamente e di nascosto, un po’ crede ancora in queste presenze. Decide pertanto di non ignorare questo mondo e di mantenere vivo il ricordo di questa mitologia inquietante e confortante allo stesso tempo, costellata di fuochi fatui che aleggiano tra la vita e la morte. E proprio in questa zona crepuscolare L’abito di piume (2003) ci racconta una storia che ruota intorno ad un kimono speciale, l’hagaromo, che consente alle donne-angelo di volare tra il mondo terreno e l’aldilà. E qui di nuovo risalta un tema molto caro alla Yoshimoto, quello della resilienza che si sovrappone naturalmente a quello del destino.
Il senso del destino e la resilienza
“Mi pare che la vita, nella sua grandezza, nasconda sempre qualcosa di insopportabile, eppure non ci resta altro che accettarla.” Così ne L’abito di piume invita a non cedere alla disperazione di fronte ad una perdita importante. Il dolore, per quanto intollerabile, è parte della vita stessa. La Yoshimoto è profondamente convinta che il destino segni sempre la storia di ogni persona. Ambiente familiare e fattori innati sono in grado di muovere ciascuno di noi sulla scacchiera della propria vita, facendoci fare scelte precise e vivere conseguenze inattese, in un senso che a volte, se non spesso, ci sfugge. Un senso di inesorabilità che però non va confuso con l’accettazione passiva di qualsiasi sofferenza. Spesso i suoi personaggi sono paragonati al Giobbe biblico. Banana Yoshimoto replica che, pur essendo poco credendo e non frequentando i templi, lo stesso principio buddhista dello zen spinge ad affrontare le difficoltà e ogni altro momento o situazione senza lasciarsi travolgere. La resilienza che praticano i protagonisti delle sue storie è sempre molto silenziosa e discreta, quasi che non vogliano disturbare l’armonia del mondo circostante. Ma serve a superare traumi e perdite senza abbandonarsi alla disperazione. La memoria fa il resto: “Gli esseri umani si dimenticano le cose tristi, perché altrimenti non riuscirebbero ad andare avanti.” (H/H, 1999). Dimenticare il dolore per poter continuare a vivere, una riflessione sull’adattamento emotivo degli esseri umani di fronte alle avversità.
I manga, i giovani giapponesi e la donna
Abbiamo già accennato quanto il genere manga influenzi la Yoshimoto nella costruzione del suo stile e del suo marchio letterario. E la leggerezza, spesso associata al fumetto qualsiasi tema tratti, è sicuramente uno degli aspetti più interessanti della sua scrittura. Una leggerezza che si traduce in semplicità, il più delle volte soltanto apparente. La scelta di parole non troppo ricercate e costrutti più snelli per rappresentare immagini potenti di traumi mostruosi o sofferenze indicibili la rendono particolarmente amata dai lettori, soprattutto dai più giovani. La Yoshimoto va incontro ad una rivoluzione culturale lenta e silenziosa che dagli anni Ottanta e Novanta i giovani stanno portando avanti contro il sistema in Giappone. L’insopportabilità delle costrizioni sociali, la rigidità degli schemi culturali, l’insofferenza verso la disciplina nella scuola e nel lavoro hanno spingono gli adolescenti della generazione di Banana Yoshimoto e delle successive a cominciare ad opporre un rifiuto spesso discreto, a volte più eclatante, ma comunque sempre più diffuso in tutto il paese. La recente crisi economica e la definitiva alienazione del giapponese medio come risultato di questa cultura finiscono poi per allargare la forbice generazionale, ricomprendendo fasce di età più avanzate. La scrittrice si interessa a questa condizione esistenziale che vede intrappolare i giovani immersi in una realtà di cui non trovano il significato. Parla a loro con testi brevi e un linguaggio colloquiale, un’ondata di freschezza che s’infrange sugli scogli del formalismo di una letteratura giapponese più tradizionale. Un nuovo tipo di letteratura, che qualcuno definisce postmoderna, più lineare e scorrevole, uno stile minimalista che non esclude però alcuni momenti di puro lirismo. E in questa rivoluzione stilistica, lo sguardo della Yoshimoto si pone anche sulla figura della donna, sulla condizione della donna giapponese e il suo ruolo nella società. Una società, appunto, sospesa tra un sistema considerato ormai troppo arcaico e la paura del cambiamento. Così la scrittrice dà voce ad una generazione di donne, soprattutto quelle nate dopo gli anni Sessanta, che cercano nuove forme di realizzazione e indipendenza, sia affettiva che professionale. Un’immagine stilizzata di queste donne potrebbe raffigurare proprio Mikage di Kitchen, e la sua ricerca del suo posto nel mondo.
Riflessioni sulla vita e il bambino che c’è in noi
Tutti noi, comunque, al di là di dove ci troviamo nella vita, del contesto in cui siamo nati e cresciuti, stiamo intraprendendo un viaggio. E nel 2010 Banana Yoshimoto pubblica quarantasette racconti che compongono il saggio Un viaggio chiamato vita. Una lunga serie di variegate riflessioni sulla vita e i suoi momenti, sui ricordi, sulla capacità dell’essere umano di affrontarla. La preoccupazione per la perdita del contatto umano, incalzata anche dalla sopraffazione dei social network, ma già molto presente nella società giapponese da generazione fino a tradursi, nel suo punto più dolorosamente alto, nel drammatico fenomeno dell’hikikomori, e poi la paura del distacco dell’uomo dalla natura, l’importanza della memoria perché il presente in un istante diventa passato e non ne resta che il ricordo. Così come nei viaggi, anche nella vita ciò che rimane sono i ricordi, e questi a volte diventano piacevoli anche se si riferiscono a vicende dolorose. E all’ingresso nei suoi sessant’anni Banana Yoshimoto ci presenta il suo ultimo romanzo Spirito bambino (uscito il 10 settembre), oltre a un breve saggio in cui tenta di dare una risposta ad una domanda esistenziale fondamentale nella nostra vita: Che significa diventare adulti? Una sorta di memoriale in cui ripercorre alcune fasi della sua gioventù e oltre, condividendo scelte e riflessioni sulle relative conseguenze invitando il lettore a non perdere mai la fiducia in se stesso e a prendersi cura del bambino che è in lui. La meraviglia purtroppo tendiamo a perderla crescendo e maturando, ma è proprio lì che sta l’essenza della vita. La bellezza delle piccole cose, che la Yoshimoto non smette di cercare in ogni sua storia, è spesso intrecciata con la meraviglia. Ma oltre alla bellezza, anche l’inatteso, l’imprevedibile: “Ci sono tante cose che non possiamo spiegare, ma sono quelle che rendono la vita interessante.” (Il corpo sa tutto, 2000)
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