di Teodoro Lorenzo
Tutto quello che serviva al Conte Monaldo e a sua moglie Adelaide era racchiuso nello spazio di poche decine di metri.
Il palazzotto in cima alla salita, dove abitavano, e la chiesa, di lato, dove si recavano giornalmente per gli uffici del loro spirito.
Il loro mondo stava tutto lì, e si misurava con i passi di un uomo, hortus conclusus, non aveva altri passaggi o sentieri che conducessero al di là di quel recinto.
Il palazzo mostrava una facciata lunga e austera. Rimandava e faceva il paio con la personalità del suo proprietario, il Conte, sempre vestito di nero, reazionario e papalino, letterato dalle velleitarie ambizioni, inseguite senza talento nel tempo lasciato libero dalle novene e dai rosari recitati instancabilmente in compagnia della moglie. Anche lei rigida e austera, come il marito e il palazzo, religiosa fino al bigottismo, senza calore né spontaneità di tenerezze, del tutto incapace di effusioni materne.
Uscire uscivano poco, appena lo stretto necessario. Fuori mancava l’aria e boccheggiavano come pesci sulla sabbia. Solo dentro, nel loro palazzo, riprendevano a respirare, solo lì si sentivano al sicuro. Sbarrato in fretta alle loro spalle il portone d’ingresso lasciavano all’esterno la follia del mondo. Nulla di ciò che si trovava fuori doveva penetrare all’interno, nulla di nuovo, nulla di fresco doveva scivolare su quella muffa.
Quelli poi erano anni difficili. Giravano strane idee da quando l’armata stracciona guidata da quel corso poco di buono, e meglio sarebbe dire corsaro, nel 1796 aveva valicato le Alpi inzaccherando le città d’Italia. Idee malsane; idee, pensate un po’, di libertà e uguaglianza. Per Monaldo di rivoluzione e sovvertimento dell’ordine sociale.
Il Conte ne rabbrividiva al solo pensiero, e giù un’altra mandata di chiavistello al portone del palazzo di piazza Monte Morello. Sapeva che
alla plebaglia bastava una scintilla per prendere fuoco, e di scintille cominciavano ad accendersene dappertutto.
L’incendio infine divampò, a Napoli, nel 1799, e l’eco di quella rivoluzione oltrepassò i muri di palazzo Leopardi.
No, non era il momento giusto per venire al mondo. Ma quel pargoletto evidentemente doveva nascere sotto stelle infauste; ed è un paradosso, perché nessuno più di lui le amò.
Giacomo Leopardi nacque nel 1798, proprio nel bel mezzo del putiferio.
L’atmosfera della famiglia, già cupa di suo, non era destinata a migliorare negli anni successivi. Alle vicende politiche, foriere di lugubri pensieri, si aggiunsero i lutti privati: dei nove figli nati dopo Giacomo ne sopravvissero solo quattro: Carlo, Paolina, Luigi e Pierfrancesco.
Il Conte scoprì ben presto che, almeno per il primogenito, il DNA lo aveva tradito. I due non potevano essere più diversi. Di forza centripeta lui, centrifuga il figlio: se il Conte consumava ogni energia all’interno, Giacomo lo faceva all’esterno, perchè aveva fame e sete di mondo.
Cominciò subito ad osservarlo attraverso la biblioteca paterna.
Lì dentro il Conte aveva concentrato tutto o quasi lo scibile umano, oltre 16.000 volumi. Era quella la televisione del piccolo Leopardi; lì ogni volta cambiava canale e storia, geografia, astronomia, lingue, letteratura gli scorrevano davanti agli occhi.
Sette anni di studio matto e disperatissimo per diventare l’uomo nuovo, l’onnisciente. Imparò il greco, il latino e l’ebraico, studiò filologia e tradusse i classici. I prelati, due, a cui era stata affidata la sua educazione
ad un certo punto non poterono far altro che alzare bandiera bianca e ritirarsi in buon ordine: non avevano più nulla da insegnargli, Giacomo era diventato di gran lunga più sapiente di loro.
A tredici anni, quando si sa poco più che scrivere il proprio nome e già il dettato della maestra provoca preoccupanti batticuori, Leopardi aveva scritto due tragedie, Pompeo in Egitto e la Virtù indiana; a quattordici aveva ultimato le Dissertazioni Filosofiche, così, per svagarsi un po’; a quindici, quando i ragazzi normali aggiungono un po’ di matematica, ma non troppa, aveva composto “La Storia dell’astronomia” e a diciassette, quando non ci si rende neanche conto degli errori propri, ne “Il Saggio sopra gli errori degli antichi” aveva analizzato quelli altrui.
Ma nonostante tutto, e sembra incredibile a dirsi, Giacomo passò un’infanzia felice. Lo fece con Carlo e Paolina, spassandosela con loro in giochi sempre nuovi nei due giardini di casa.
In verità giocava soprattutto con Carlo, nato appena un anno dopo di lui, meno con Paolina. Quest’ultima, di due anni più piccola, era gracile e bruttina, sempre vestita di nero, e si adattava ai chiassosi giochi dei fratelli con devota pazienza ma preferiva i divertimenti più tranquilli, per esempio dir messa dinanzi ad un altarino. Per questo e per il suo aspetto i due fratelli cominciarono a chiamarla Don Paolo, soprannome che le rimase attaccato a lungo.
Pago dei giochi e dei suoi studi eruditi, Giacomo si ridesta quando comincia a diventare uomo. Ed essi non gli bastano più. E’ diventato un poeta, il bello gli si è rivelato. E quel che comincia a sognare è fama ed amore.
Ma a quel punto prende coscienza di due fatti atroci, permanenti ed irreversibili. Primo: non raggiungerà mai la fama perché Recanati è lontana da ogni circuito letterario e culturale. Secondo: non conoscerà mai l’amore perché il suo aspetto è lontano dal suscitare qualsiasi attrattiva. Come se non bastasse l’esigua statura, appena un metro e quarantacinque, una doppia curvatura, una sul torace e l’altra sull’osso della spalla destra, sebbene non così vistose come la vulgata popolare andò diffondendosi in seguito, l’aveva comunque deformato. Colpa del peso dei volumi troppo pesanti che aveva cominciato fin da bambino a prelevare dalla biblioteca paterna per le sue consultazioni.
Quelle due profonde frustrazioni cominciarono a segnarlo nel profondo e lo indussero più volte a scappare dal “borgo selvaggio”. Ma fu tutto inutile. Ci aveva visto bene fin dall’inizio. Nel corso della sua vita non raggiunse mai né la fama né l’amore. Da pochissimi fu riconosciuto grande poeta e, soprattutto, non conobbe mai l’amore di una donna.
All’ombra del Vesuvio ce lo portò l’amico Antonio Ranieri, per la salubrità dell’aria. Aveva incontrato Leopardi, che versava in uno stato di profonda prostrazione, nel settembre del 1830, a Firenze. Due persone più diverse non si sarebbe potuto immaginare: per indole, costituzione fisica, abito mentale e tenore di vita. Da una parte un genio trentenne assetato di riconoscimenti e affetti, infelice, malato e di corpo deforme; dall’altra un ventiquattrenne napoletano, biondo, aitante, vanitoso, estroverso, gran femminiere, giramondo, esiliato dal regno borbonico perché di idee liberali e compromesso con i moti del 1820.
A Napoli arrivano il 2 ottobre 1833.
La città in quel periodo conta 360.000 abitanti, è la città più popolosa d’Europa dopo Parigi, Londra e San Pietroburgo. C’è gente in giro ad ogni ora e a Giacomo piace passeggiare tra la folla, avvolto come sempre nel suo vecchio cappotto verde col bavero alto. Passeggia da solo, esce sempre intorno a mezzodì, mai nel pomeriggio per timore che l’aria della sera possa nuocergli, e va a cercare le sue passioni: una vecchia, nata con lui: i libri; ed una nuova, nata sotto il Vesuvio: i dolci. I libri li acquista nelle botteghe antiquarie di via Costantinopoli, per i dolci gira di più: via Toledo per le granite e i sorbetti, la pasticceria di Pintauro, in via santa Brigida, per le sfogliatelle, le frolle, i mandorlati, i canditi, le cassate e le paste di riso; il caffè di Vito Pinto, a Largo della Carità per i tarallini zuccherati ed i gelati.
Trovò la città amabile e benevola, all’inizio. Ma il 3 febbraio 1835 già scrive così a suo padre: “Ora il mio principale desiderio è di disporre le cose in modo, ch’io possa sradicarmi di qua al più presto; ed Ella viva sicura che quanto prima mi sarà umanamente possibile, io partirò per Recanati, essendo nel fondo dell’anima impazientissimo di rivederla, oltre il bisogno che ho di fuggire da questi Lazzaroni e Pulcinelli nobili e plebei, tutti ladri e baroni fottuti degnissimi di Spagnuoli e forche”.
Dell’iniziale entusiasmo non c’è più traccia. Tutto è sparito in fretta, così come era successo a Roma, Bologna, Milano, Pisa e Firenze. Non era ovviamente colpa delle città. Era la sua infelicità; quella che portava sempre con sé e gli avrebbe reso odiosa qualsiasi permanenza.
Il 14 giugno 1837, attorno alle cinque del pomeriggio, Giacomo Leopardi muore. Quindici giorni dopo avrebbe compiuto 39 anni.
E qui comincia il mistero.
L’epidemia di colera aveva avuto inizio il 2 ottobre 1836, quando un doganiere del porto fu colpito dal male. Immediatamente erano state prese tutte le misure urgenti per arginare il diffondersi del morbo. Re Ferdinando, tra le altre cose, fece divieto assoluto di seppellire i morti, anche se deceduti per altre malattie, nelle chiese o in qualsiasi altro punto della città. Lo si doveva fare solo in due luoghi precisi: a Poggioreale e in una vasta cava di tufo abbandonata detta delle Fontanelle. Era un ordine tassativo a cui non sfuggì nessuno: morti di colera o di altre malattie, finivano tutti nelle fosse comuni, nudi e ricoperti di calce viva.
L’epidemia ebbe fine nel settembre del 1837, morirono all’incirca 20.000 persone, e Giacomo Leopardi fu uno di questi. 18.000 furono seppelliti a Poggioreale e il resto alle Fontanelle.
Data la breve distanza che intercorre tra il cimitero delle Fontanelle e via Vico Pero, dove era la sua abitazione, il corpo di Leopardi molto probabilmente finì nella fossa comune delle Fontanelle. Ma di questo non si può essere certi. Tutti i registri e i documenti conservati presso i due cimiteri sono andati infatti distrutti durante la seconda guerra mondiale.
Racconta Ranieri nel suo libro, “Sette anni di sodalizio con Leopardi”, pubblicato nel 1880, che la sera del 15 giugno 1837 da Vico del Pero partì una carrozza contenente la bara del poeta. Aveva predisposto lui stesso l’intero piano. Al parroco, don Francesco Sorbino, aveva elargito cospicue elemosine e consegnato una cesta di pesce affinchè accogliesse quella bara nei sotterranei della sua chiesa, quella di San Vitale a Fuorigrotta, al fine di evitare all’illustre amico l’oltraggio della fossa comune.
Nel 1884 poi si incaricò di trasferirla dai sotterranei al vestibolo, murandola sotto un monumento scultoreo fatto costruire appositamente da lui, e a sue spese.
Si tratta di un racconto ben congegnato ma completamente falso, costruito ad arte dal Ranieri per ottenere credito e notorietà da postumi e contemporanei, nella illusione che almeno un raggio della fama di Leopardi potesse raggiungere anche lui.
Il trasferimento delle spoglie mortali di Giacomo Leopardi nella chiesa di San Vitale non avvenne mai. Quel che fece Ranieri fu infilare nella bara il cappotto verde, qualche altro effetto personale e i resti ossei di un disperato senza nome.
Nel biennio 1836-1837, cioè sotto l’infuriare del colera, tutti dovettero sottostare alla norma della fossa comune; anche personalità politiche del tempo, come Fardella, Ministro della Guerra, morto di morte accidentale e non di colera, fu inumato insieme con altre salme. Non si spiega perché proprio per Leopardi si sarebbe dovuto fare un’eccezione. Non era un cittadino napoletano, la sua reputazione come poeta non era allora tale da far pensare nemmeno lontanamente alla gloria cui sarebbe assurto molti anni dopo. Neppure il Ranieri poteva disporre per se stesso di un prestigio incontrastato. Solo da pochi anni gli era stato tolto il decreto di espulsione dal reame di Napoli. La polizia lo teneva sotto controllo attraverso una discreta vigilanza sugli amici, sugli spostamenti e i suoi scritti. Davvero non era la persona più adatta a richiedere e ottenere un privilegio che si negava a tutti, anche a personaggi eminenti e vicini alla corte.
La verità venne a galla il 12 luglio del 1900, quando, riesumati i resti della bara murata nel vestibolo di San Vitale, ne venne fatto l’inventario, questo:” Frammenti di costole, femore destro solamente parziale, l’intero femore sinistro lungo 45 cm, alcune ossa tarsee, un astragalo (60 mm). Tra gli oggetti: un pezzo di soprabito, una giamberga di colore verde, frammenti di un gilet rosso marrone, la suola con parte di tacco della scarpa destra”
Fu chiaro a quel punto che i frammenti ossei, trovati in una bara di un metro e quarantadue centimetri, quindi più piccola di tre centimetri dell’altezza di Leopardi, non potevano essere quelli del poeta. Tanto più che nella bara non vennero rinvenuti né un teschio né una colonna vertebrale né una cassa toracica né denti e neanche capelli: era la prova lampante che nessun essere umano fu mai deposto al suo interno.
Quei miseri testi rimasero comunque lì fino al 1939.
Durante il fascismo, poiché la chiesa di San Vitale doveva essere abbattuta, le autorità procedettero alla loro traslazione a Fuorigrotta, ponendoli accanto alla tomba di Virgilio nel parco delle Rimembranze.
Migliaia di persone oggi si recano a Fuorigrotta per rendere omaggio al genio che ha reso illustre l’Italia nel mondo. Di Leopardi però lì dentro non c’è nulla. Se non il suo cappotto.
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