di Caterina Corucci
Immagine di copertina di Paolo Migone
“Ho trent’anni, e da nove sono pulito”. Così ha scritto D. nel suo racconto. Parla di un sogno, quello di tornare libero per stare vicino a sua moglie. Vorrebbe che le sue parole le leggessero “tutti i ragazzi come ero io, che avevo più o meno vent’anni”, così dice. Vent’anni, più o meno. L’età di mia figlia.
Nel gruppo di carcerati lui è il più giovane, ha gli occhi vivaci in modo inaspettato. Fa parte dell’insieme di persone sedute in cerchio nella piccola stanza adibita ad aula. Siamo quattordici: dieci detenuti, lo scrittore Massimo Granchi che tiene la lezione del corso di scrittura creativa di oggi e animerà la discussione, la psicologa che ha voluto questo corso, l’assistente sociale e io.
Ma facciamo un passo indietro. L’autorizzazione per farmi entrare nel carcere di massima sicurezza di San Gimignano è arrivata solo pochi giorni fa dopo mesi di richieste, invio di moduli, risposte negative dalla Direzione del Carcere, nuove richieste, pareri della Usl, dei detenuti, del Ministero di Giustizia, attese. E finalmente ho il permesso di assistere ad una lezione del corso con lo scopo di redigere un articolo per la rivista Offline. Alle condizioni ovviamente indiscutibili di: non poter intervistare i detenuti, non fare riprese foto o video, non riportare nell’articolo i nomi dei corsisti. Posso solo osservare e scrivere su carta.
Alle tredici e trenta mi sono trovata all’ingresso principale con Massimo per entrare insieme. La guardia carceraria ci ha informati che l’incontro di oggi si terrà nell’aula che dà sul corridoio dove i detenuti fanno la “passeggiata”. Quindi ho consegnato documenti, telefono, borsa ed effetti personali, ho superato il metal detector, poi altri cancelli e porte, sobbalzando ai clangori metallici di sbarre e inferriate che mi si richiudevano dietro.
Oggi si tiene la settima e penultima lezione. Nelle prime sono stati trattati gli intenti del corso, l’obiettivo tangibile cioè la produzione di un racconto, e gli obiettivi sottesi: il leggersi dentro e il tirare fuori, la scrittura come terapia o come veicolo per mandare messaggi. Sono poi state spiegate le tecniche dello scrivere, l’incipit, i personaggi, la trama. A Massimo Granchi si sono alternati di volta in volta, in qualità di docenti, la poetessa Sarita Massai e il professor Enzo Linari, saggista. Questa sarà la lezione più tecnica: verranno restituiti i racconti a quanti li avevano già consegnati, con commenti e annotazioni. Non ci saranno vere e proprie correzioni, la cosa che interessa è porre l’attenzione sui passi più significativi, ben scritti o su cui si può riflettere per lavorare meglio.
Parliamo di tutto questo percorrendo un corridoio dalle pareti che sembrano quadri, vivacizzate da disegni coloratissimi e scritte di filosofi e pensatori, finché arriviamo davanti all’ultimo sbarramento. La psicologa mi dice che qui sono tutti molto curiosi riguardo alla mia presenza, un raro contatto con il “fuori”.
Pochi metri, un’altra chiave che gira e mi ritrovo nel corridoio della passeggiata. Diverse figure, a gruppi o singoli, si voltano verso di noi. Proseguiamo fino a fermarci davanti a una porta di ferro verde scuro con una finestrella in doppiovetro. Intanto diverse persone ci sono venute incontro; tutte si presentano stringendomi la mano con gentilezza, quasi deferenza e io mi scopro stupita dei loro sorrisi aperti, delle loro facce comuni in modo così rassicurante. Molti stringono tra le dita il racconto che ha riempito le ore delle loro ultime settimane, e lo mostrano con entusiasmo a Massimo. Lui l’accoglie con un’approvazione sincera, percepibile nei gesti.
Offuscata dai pregiudizi immaginavo chissà quali volti, invece no, per niente. Quell’agitazione che sentivo dentro di me, alimentata dai mesi di attesa per ottenere il permesso e poi dalle indicazioni e dai divieti, quell’agitazione che mi ha fatto arrivare all’appuntamento un’ora in anticipo per guardare dall’esterno l’imponente costruzione in cui sarei entrata poco dopo, tutta quell’agitazione lì, insomma, la sento sparire in un secondo nel trovarmi di colpo nel corridoio a passeggiare con i carcerati, come fosse la cosa più normale del mondo. Solo una nota storta: dentro ai loro occhi, anche in quelli più vivaci, è come se qualcuno avesse abbassato un po’ la luce.
Ecco che la porta di ferro si apre, e si richiude dietro di noi. Dalla finestrella a vetro scorgo la sagoma del secondino che resta di guardia dall’altra parte.
Nella cella adibita ad aula ci sono alcuni banchi che gli uomini cominciano a spingere verso le pareti, accatastandoli velocemente uno sull’altro per creare uno spazio al centro dove vengono sistemate in cerchio quattordici sedie. Mentre si svolgono queste operazioni mi guardo intorno. Su una lavagna qualcuno ha disegnato il teorema di Pitagora, cateti e ipotenusa, accanto c’è un cartellone con la coniugazione del verbo To have. Di fronte, il planisfero fisico.
Prendiamo posto. Io mi sistemo fra la psicologa e un individuo magro dai colori chiari, silenzioso. Davanti a me il suo esatto opposto, un uomo robusto, bruno di capelli e di occhi, e tanta voglia di parlare.
Massimo dice due parole sul chi sono io e perché mi trovi lì. Alcuni mi chiedono della rivista, cosa pubblichiamo, dove. Spiego che ci occupiamo di letteratura, in ciascuna forma e luogo si manifesti. L’uomo bruno ride dicendo che nessuno, “fuori”, si immagina che la letteratura possa trovarsi anche lì “dentro”.
“E noi glielo faremo sapere”, dico.
Sembrano tutti molto soddisfatti della mia risposta e io sento di essermi guadagnata la loro simpatia.
Massimo prende la parola, ha sulle ginocchia alcune pagine, scorgo un manoscritto, la calligrafia ben definita, e poi altri fogli battuti al computer, giacché i detenuti hanno la possibilità di usare quelli messi a disposizione nella Casa, che non hanno il collegamento internet.
Granchi esordisce dicendo che i racconti sono davvero buoni, le storie emozionano. Lo stile di alcuni è alto, lirico. Invita a riflettere su come la sofferenza apra la strada alla poesia. Racconta di Sparta, dove gli individui fragili o con problemi venivano gettati dalla rupe e che, guarda caso, quella società fatta soltanto di individui forti e giusti, è stata l’unica nella storia a non aver prodotto artisti, né poeti o filosofi.
A questo punto passiamo ai testi. Massimo chiede agli autori il permesso di leggerli ad alta voce, perché siano oggetto e spunto di riflessione per ognuno. Sono tutti d’accordo, anzi, appaiono contenti, come se avessero una gran voglia di essere letti.
Iniziamo proprio da quello dell’uomo bruno e ci soffermiamo subito sul titolo, che funziona: “Nato in Calabria”. Come è stato detto in una delle lezioni, il titolo deve essere evocativo, e questo qui è già una storia: senza dire troppo descrive molto riguardo all’ambientazione, alla disposizione d’animo. Il titolo è azzeccato anche nel racconto di R. “Io ero Maradona”: qui si apre un mondo, le parole rimandano all’identità, oltre che al territorio di appartenenza.
Dopo passiamo ad analizzare gli incipit. Alcuni attivano subito i sensi: i colori della terra, le distese di olivi, l’aria impregnata dell’odore acre della sansa.
Il racconto di F. dà poi lo spunto per riflettere sull’uso delle parole. Si possono inventare? Si può dire “ombrato” invece di ombroso? E le parolacce? In un racconto realistico ci possono stare, se ben contestualizzate. Dire “la droga è merda” va benissimo, anzi è utile perché non ci siano dubbi sul messaggio che la vita è preziosa, che la forza di volontà vince e fanculo la droga.
E il dialetto si può usare? Sì, come pure lo slang, infatti c’è chi lo utilizza e anche bene, trasferendo immediatamente il vissuto sulla pagina, come in un’istantanea.
Poi e i dialoghi, l’ironia e le metafore. Ce ne sono di bellissime: “uno sguardo che brucia le intenzioni”.
Nei testi ricorre la figura del padre e si percepisce la nostalgia: per una donna bella e disinibita, per il profumo della zagara, per una gita, quasi una fuga di bambini e infine per un maiale che dopo anni di vita da animale quasi domestico trova la libertà. Si tratta di Mico, l’amico dell’uomo bruno che dopo anni lo ritroverà nel bosco, cresciuto e inselvatichito. E lì penserà che il maiale ha avuto una vita migliore della sua.
C’è una storia che trovo meravigliosa: racconta di quando un gruppo di bambini a scuola rubava sempre la merenda al compagno di classe che era il figlio del fornaio e questo, un po’ per paura e un po’ perché forse non aveva problemi economici come loro, invece di denunciarli non lo disse mai ai genitori né ai maestri. Fu per questo motivo che alla fine il figlio del fornaio diventò amico dei bambini che gli rubavano la focaccia.
La scrittura salva e redime. Questo viene detto oggi. Non è un caso che tutti questi racconti siano in prima persona.
A un certo punto ho come l’impressione di svegliarmi, quasi mi accorgessi solo in quel momento di essere in un carcere. Sì, perché mi ero completamente fatta prendere dalla discussione, dagli interventi di Massimo puntuali e professionali come può avvenire in una qualsiasi scuola di scrittura, o in un laboratorio di quelli che ho frequentato in biblioteche e librerie, nonostante qui ci siano complessità difficili da gestire.
Eppure c’è anche qualcosa che somiglia molto a un valore aggiunto. Ci sono elementi in più perché in una casa di reclusione, come dice il docente, cambiano tutte le percezioni: alcune cose vengono meno e se ne sviluppano altre. Muta per esempio il rapporto con la sessualità e si scoprono altre dimensioni, altri interessi come l’amicizia, o la politica.
Questo è esattamente quello di cui parla l’ultimo testo, che ha la struttura di un romanzo, praticamente ci sono già i capitoli. L’autore vuole scrivere una specie di vademecum, raccontare cosa vuol dire essere carcerato dal momento in cui ti vengono a prendere a casa a quando ti ritrovi a dormire in cella con sconosciuti. Di come puoi bere o mangiare solo in stoviglie di carta o plastica, e che quando esci rischi di farti male ai denti se bevi a una tazzina di vetro, che non ci sei più abituato. Vuole far sapere come il carcere può cambiare una persona, e lo vuole dire a chi entra in carcere e a chi non ci entrerà mai. E comunque, dice F., nessuno dovrebbe pensare che non ci entrerà mai, se il trenta per cento delle persone in carcere alla fine viene dichiarata innocente.
Massimo si accorge che sono già passate due ore, il tempo è scaduto.
Qualcuno chiede, anche se ha già scritto il suo racconto, se può scrivere ancora qualcosa. Non per quella sorta di premiazione o riconoscimento che probabilmente ci sarà più avanti, a chiusura del corso. No, solo per scrivere ancora.
Come se queste persone avessero scoperto uno strumento nuovo, la scrittura come una strada che si scorge in mezzo alle macerie; un qualcosa di così utile e prezioso che poterne usufruire senza un permesso speciale appare un lusso.
Quando invece, immaginare storie, scavare nella memoria e scrivere è una cosa che nessuno può togliere a nessuno. Nemmeno a un carcerato.
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