Di Tommaso Aramaico
Immagine di copertina di Rachele Nannini
Sono passati molti anni da che questi fatti sono accaduti. Solo adesso, ormai donna, unica sopravvissuta agli eventi, mi decido a lasciare la verità a disposizione dei pochi che vorranno ascoltare e saranno capaci di credere. Le persone di cui sto per parlare non hanno avuto un futuro. Sono note per una vicenda. Per di più falsa. Vivo godendo della mia vittoria. Il premio è la semplice vita e niente altro. Non è poi molto. Ma nemmeno poco. Sono viva. Voi credete che siano vive. Non lo sono. Solo le favole raccontate a metà hanno un lieto fine, per tutte le altre vi sono solo lacrime, sangue e dolore.
Neppure d’un nome ero degna, io. Trovata chissà dove. Presa in casa a forza, forse per il ricatto di qualcuno. Di me non si parla da nessuna parte, ma c’ero, ci sono, ci sarà. Ero motivo di vergogna e scontento. Hanno cercato di cancellarmi dalla Storia, ma io sono l’unica testimone di quanto è veramente accaduto. Ero buona solo per i lavori più umili, sono stata schiacciata per anni da silenzio, sguardi carichi di disprezzo e grondanti malvagità. Lo so: non sono stata la prima, né sarò l’ultima della lunga schiera di bambini maltrattati; bambini reietti, abbandonati e sfruttati. Non pensate a quelli che alla fine hanno trovato riscatto, quelli il cui destino è stato preso finalmente in carico da qualche animo gentile. E non pensate neppure a quelli che non ce l’hanno fatta – pace all’anima loro. Nessuno mi ha mai dedicato un pensiero gentile. Il mio viso era smunto e pallido, gli occhi cerchiati, i capelli di stoppa, le gambe sottili, gli occhi castani e le labbra mie esangui. No, quelle fattezze non hanno intenerito nessuno, anzi, hanno nutrito solo mute ostilità. Eppure sono ancora viva.
Lasciata a me stessa, sono cresciuta nella privazione, senza nome – io, la sorellastra di Cappuccetto Rosso. Fortunata? No. Non credete alle voci che girano. Le storie mentono, sono appunto, semplici storie. Non era gentile la madre di Cappuccetto Rosso, non era dolce la nonnina. Lei? Ebbene, lei era viziata e cattiva. Godeva del mio dolore, della mia solitudine, della mia impotenza. Tutti se ne innamoravano. Vero, perché sapeva fingere. E più fra tutti la amava e la proteggeva la vecchia, la nonnina. Oh, come la vezzeggiava. Non ne ho mai compreso il motivo profondo. La vecchia era un demonio e di certo vedeva in quella piccola vipera gli albori della propria cattiveria, annusava una vita carica di futuro, mentre i suoi giorni erano contati dalla vecchiaia e dal tempo che correva implacabile verso la fine. La nonnina la riempiva di regali, mentre a me non era concesso nulla. Se sono stata invidiosa? Certo che l’ho invidiata e odiata. Lei passava il tempo seduta a giocare con le bambole davanti al fuoco del camino, mentre io ero costretta a lavare le stoviglie, le mani viola nell’acqua gelida. Lei a calzare le scarpette nuove, mentre a me lasciavano quelle vecchie, troppo piccole per i miei piedi grandi e pieni di calli. Tutto quello che aveva ed era, ecco, sentivo che lo sottraeva a me, che non ero nessuno e non possedevo nulla. Anche l’aria che respirava mi sottraeva, e nei momenti in cui crisi spaventose e improvvise facevano battere il cuore all’impazzata, quello pareva si incastrasse in gola togliendomi il fiato e facendomi cadere a terra. Spesso rimanevo per ore priva di sensi, nella stanzetta piccola e umida e buia che mi era stata riservata. E spesso venivo svegliata solo al mattino, prestissimo, dalla mia matrigna, solo perché dovevo pulire e preparare la colazione. Lo stomaco vuoto che mi doleva per la rabbia e la fame. Avevo più fame di cibo o di vendetta? Non lo so ancora oggi. Ma so, oggi, che quei dolori sono scomparsi.
Nessuno ha mai osato dire e dall’esterno intuire quanto fosse ossessiva e vanitosa. Quella mantellina rossa, poi – non è vero che non voleva più toglierla perché le piaceva tanto. Non poteva toglierla. Se la madre provava a sfilargliela di dosso, allora lei iniziava a respirare affannosamente, fingeva di svenire o di vedere cose che non c’erano. Nessuno sa dei graffi sulle braccia della madre, la mia matrigna, dei calci, dei piatti scagliati contro le pareti. E se per caso, malcelata nella penombra dell’atrio, assistevo alle sfuriate di quella piccola pazza, allora la mia matrigna correva e mi afferrava per i capelli, trascinandomi per tutta casa, picchiando alla cieca, prima di sbattermi fuori, a terra, al freddo o col sole che mi stordiva fino allo svenimento.
Nessuno osava veramente contraddire quel piccolo demonio. Pazza come era, minacciava di uccidersi o di farsi sbranare dal Lupo. Se la madre osava dirle basta, beh, lei batteva la fronte contro la parete fino a che diventava viola o otteneva quanto bramava. Guardando la nonna diritta negli occhi, con la punta del coltello si apriva piccole ferite all’altezza dei polsi. La vecchia impallidiva e si inginocchiava al suo tirannico volere. Era pazza, datemi retta, pazza. Lo era sempre stata, da quando la ricordo. Da piccola si accovacciava a terra e dava testate al pavimento di pietra. Ricordo ancora, con un brivido, l’ultima volta che lo fece, quando, presa male la mira, aveva battuto il naso. Con orrore ricordo il sangue ovunque, le urla delle due donne, il freddo glaciale della mia sorellastra. Tanto pazza con tutte noi, quanto adorabile e dolce mentre passeggiava per le vie del paese. Tutti l’amavano, molti la temevano, io la odiavo. Io, che per causa sua avevo perduto il mio vero nome, per prender quello di sorellastra. Nessuno che osasse più pronunciare il mio vero nome. Persino io, a tratti, fatico a riportarlo alla memoria. – Tu, sfaticata, piccola vipera, sorellastra, puttanella, sfacciata, bastarda trovatella – questi erano i miei appellativi. Figlia di nessuno, le poche volte che potevo uscire di casa, ero sempre sola – perché si vergognavano di farsi vedere con me. Non so quali voci circolassero, ma se incontravo qualcuno, allora erano solo bisbigli, ghigni e occhi che mi fuggivano, per poi tornare su di me dalle spalle. Sentivo gli occhi delle persone premere contro schiena e nuca, ma non osavo voltarmi. Tutti allo stesso modo si comportavano, tranne il cacciatore. Solo lui si fermava, come fulminato, ogni volta che mi incontrava. Anche lui sempre solo, proprio come me. Mi scrutava intensamente, da far paura, così tanto che faceva venire voglia di fuggire e al tempo stesso paralizzava. Erano momenti senza fine. Il suo respiro diventava sempre più pesante. Perché mi odiava tanto? Anche lui, come me, rimaneva a lungo bloccato, prima di esplodere: «A casa!», ringhiava.
E io correvo, fuggendolo. All’inizio mossa dallo spavento, poi dal dubbio e, nel tempo, dopo anni, perché dal suo sguardo ambivalente avevo capito che le sue labbra erano le mie, suoi i miei occhi, così come la fronte, naso, gli zigomi. Padre mio maledetto che m’hai abbandonato ancora in fasce, concepita da chissà quale cagna in calore, sorellastra della candida Cappuccetto Rosso che tu guardi con occhi gentili, riconoscendo solo lei e non me, come figlia, mia sorellastra, figlia tua, sua madre è la mia matrigna; suo padre mio padre; perché tu, io lo so, devi aver ucciso e fatto scomparire il corpo del primo marito della mia odiata matrigna. Ecco cosa vi lega, ecco cosa ti lega a quel piccolo demone. L’uomo si deve esser fatto sotto, dopo aver visto i tuoi occhi, il tuo naso e la tua fronte e labbra nella piccola Cappuccetto Rosso. E tu l’hai ucciso con quel fucile sempre in spalla, con gli stessi occhi iniettati di sangue di sempre e l’alito pesante di vino e vino e vino, sempre pronto alla violenza e alla bestiale sensualità che sta sfibrando il tuo corpo e deformando i lineamenti del viso. Nei miei tredici anni avevo capito tutto. Bagnando il cuscino di lacrime e sudore sognavo la mia vendetta. Se Cappuccetto Rosso assomigliava a te e tu assomigliavi a me, Cappuccetto Rosso assomigliava a me. Aspettavo di ricomporre tutti i pezzi, cercavo la forza, il momento per passare all’atto e intanto col volto della mia sorellastra odiavo anche il mio, anche me stessa. Anche io, nel tempo, imparavo a prender confidenza con la violenza, con pensieri turpi, col Lupo…ah, il Lupo.
Tutti sanno della malattia della nonnina, del cestino e bla bla bla. Ma non è andata come si crede. La mia sorellastra se ne stava sotto un albero a sbafare e a bere, alla faccia della nonna, mentre con la coda dell’occhio seguiva i movimenti del Lupo, che non poteva capacitarsi della sua buona sorte nel trovarsi lì una ragazzina tutta pulita e paffutella a portata di ganasce. Non credete alla storia raccontata. Non aveva mai pensato di cogliere le margheritine per allietare la vecchia, no, prendeva tempo. Voleva far credere al Lupo di avere la situazione in pugno. Mangiava la torta e si concedeva gocce di vino prezioso. Mangiava e, già allora potevo leggere nei suoi pensieri, anticipava nel suo cuore malvagio i fatti e gli eventi per come li aveva pianificati. Non è vero che non sapeva cosa fosse un Lupo. Lo sapeva benissimo. Era furba.
E io la spiavo da dietro un albero, mentre lei si prendeva gioco del Lupo. Giocava alla bambina sprovveduta, facendogli credere d’esser più furbo e intelligente di lei. Aveva lasciato cadere a terra un pezzo di torta, prima che la bestia le si facesse sotto, e quando lui le aveva chiesto cosa avrebbe detto alla nonna e alla mamma della torta e del vino, lei aveva mandato giù un ultimo sorso della miscela inebriante prima di lasciar cadere la bottiglia e la torta fra l’erba «Ho incontrato te e sono corsa via, terrorizzata…», aveva ghignato. E anche Lupo sogghignava, intuendo appena il guaio in cui stava andando a cacciarsi.
Sì, la nonnina era veramente malata e, sì, è vero, era stato preparato un cestino con tanto di torta e bottiglia di vino, ma tutto il resto è falso. Così come è falso dare ad intendere che Cappuccetto Rosso fosse una bimba con la bocca che ancora puzzava di latte. No, era già una signorina bella e fatta che, fra la gente, fingeva d’esser rimasta piccina e innocente, ma che in realtà, nel suo intimo, aveva già fatto alcune scoperte fondamentali. Aveva scavato, intuito, sperimentato. Non serve scriverci su dei libri. Bastava guardarla con un pizzico di attenzione per coglierne la malizia o trovar conferma nell’apprensione della madre, della nonnina, del Cacciatore. Più difficile era cogliere il mio disgusto, che era però potente, esplosivo. Quella ragazzina era una depravata. E a causa di quella depravazione, e solo per quello, perdendo per la prima e ultima volta il controllo, un pomeriggio la nonnina l’aveva sonoramente battuta. L’avevo vista, la scena, me l’ero goduta schiaffo dopo schiaffo, fino all’ultimo graffio e alla più turpe minaccia ringhiata dalla bocca sdentata della nonnina, che quando aveva mollato la presa e aveva lasciato cadere a terra la mia nemica mortale, ravvivando i capelli e sistemando la camicetta stropicciata dopo la breve ma intensa lotta, «Mai più!» aveva sentenziato. Certo, quella punizione, che io avevo accolto come il dono che mi risarciva di tante ingiuste punizioni e ingiurie subite, quella punizione era, di fatto, la condanna a morte della nonna.
Aveva finto di cogliere le margheritine dopo tempo, è vero, ma solo per dare tempo al Lupo di andare a fottere la nonna malata. Glielo aveva promesso, alla vecchia, sputando a terra, sopra il sangue che gocciava dal suo naso e labbro aperto, aveva giurato che gliel’avrebbe fatta pagare. La nonna aveva vacillato, nel sentire quella minaccia, ma non avrebbe mai immaginato che quel demonio sarebbe arrivato a tanto…e neppure io. L’avevo seguita tutto il tempo e poi, eccola arrivare alla casa, con la vecchia ferita a morte e lei bambina ridente, dentro di sé, mentre guardava dalla finestra. Il Lupo inconsapevole sonnecchiava sulla porta di casa, dopo l’agguato. E poi il Cacciatore che passava lì per caso. Per caso? Per controllare che la nonnina stesse bene? Non so, ma ricordo Cappuccetto Rosso, la mandante, che lo invitava ad uccidere il Lupo, ignaro esecutore d’una vendetta fiorita dal cuore malvagio di quella bambina…ed ecco il rito macabro che ancora posso vedere, quello delle pietre nello stomaco, il Lupo privo di sensi, colpito col fucile, legato e col ventre aperto, che moriva davanti casa, mentre loro si godevano la scena, dalla veranda…mentre dentro, a pochi passi, alle loro spalle, la vecchia, la nonnina, lordava il letto col suo sangue. L’ho visto: era viola, forse nero. Come la notte era il sangue di quella vecchia. Nero, mortifero, malvagio.
L’altro Lupo? Quello affogato in un pentolone bollente? Altre menzogne. La nonnina era morta. Venite qui al paesino a chiedere. Ancora oggi si bisbiglia del ghigno che, d’un tratto, aveva sfigurato il volto pallido di Cappuccetto Rosso, della vostra eroina, mentre il Cacciatore per una volta poggiava di lato il fucile per coprire la bara di terra. C’era stato un pentolone pieno d’acqua bollente, così come un Lupo che ci cadeva dentro, ma in quella stanza c’era la mia matrigna, che voleva un risarcimento, ma non tanto per la morte della vecchia, che pure lei odiava, ma perché il Lupo non le aveva permesso di consumare la propria vendetta per come lei l’aveva immaginata. L’odio per il Lupo che aveva sbranato la madre che lei voleva morta, l’aveva portata a giocare quel macabro gioco con la figlia.
La storia non finisce qui. Un giovanissimo Lupo, intelligente e paziente, aveva a quel punto perso tutto e tutti, ma non me che, come lui, non avevo nessuno si prendesse veramente cura di me. Uscivo, di notte, per portargli il poco cibo che riuscivo a prendere dalla dispensa o che mi strappavo di bocca. Cresceva, come me, assetato di verità e vendetta. A lungo era vissuto nell’ombra dei boschi, nascosto, fuggendo tutti gli odori tranne il mio. Divorava con lo sguardo Cappuccetto Rosso, il Cacciatore, la mia matrigna, e intanto aspettava un mio cenno per poter realizzare i nostri giusti propositi di vendetta.
Compivo i miei quindici anni e la primavera mi rendeva più leggera che mai. Il paese era in festa e anche i giovani più timorosi diventavano arditi. Era vestito di stracci puliti che sapevano d’acqua del fiume e dei raggi del sole splendente, i capelli tagliati male, un cappello floscio che faceva ombra sulla fronte coperta da un ciuffo ribelle. Così conciato mi schiacciava contro un albero. Le formiche e le sue dita correvano sulla mia pelle che in tutti quegli anni non aveva conosciuto altro se non freddo e violenza. Qualcosa che ignoravo irrompeva nella mia vita che, d’un tratto, mi si era svelata in tutta la sua insignificanza e piccolezza. Quei brividi erano la mia benedizione. L’odio si scioglieva, liberandomi dalle catene cui ero tanto assuefatta da non riconoscerle per quel che erano. Lenta scivolavo a terra, le gambe che non mi sorreggevano più. Ma non stavo cadendo, no, stavo per sprofondare nella terra. In quel momento accoglievo la morte, che era vita.
«Come ti chiami?» Ma in quel momento, mentre stavo per pronunciare il mio nome e rinascere e tornare ad essere, la violenza tornava nella mia vita, irrompeva sotto forma del Cacciatore che prendeva il mio giovane e inesperto amante per i capelli, sollevandolo da terra senza guardarlo, gli occhi puntati su di me, spaventoso.
«A casa!» Aveva ringhiato e vendendo che io non riuscivo a muovermi, le gambe scoperte sull’erba, aveva lasciato cadere con un tonfo a terra il mio giovane amante e aveva imbracciato il fucile, puntandoglielo alla testa. Poco lontano, il Lupo era dritto dietro un cespuglio, pronto ad intervenire, ma io avevo scollato i miei occhi dai suoi e trovando la forza per alzarmi in piedi avevo voltato a tutti le spalle, per tornare a casa, sola, fredda, portando dietro il peso infinito dell’ira e di un pianto che non avevo avuto il coraggio di piangere.
Non ricordo più nulla di quella primavera, né dell’estate. So che non mi permisero di uscire di casa neppure una volta. Non mi azzardai neppure a chiedere il perché. Lo sapevo. Ogni giorno, presto al mattino o alla sera, il Cacciatore passava davanti alla finestra della mia piccola stanza per controllare che fossi in casa. Fra i cespugli del bosco che si allargava tutto intorno, potevo scorgere gli occhi del Lupo, che la notte si addormentava sotto la mia finestra, dopo che gli avevo dato qualcosa da mangiare. Il tempo passava. Passava perché è nella sua natura, passare. Il mio dolore non poteva esser contenuto dal mio giovane corpo. Pregavo che la morte mi cogliesse.
L’autunno era alle porte. Alcuni alberi ingiallivano, altri avevano avuto in dono un verde che mai sbiadiva. Il vento iniziava a soffiare, forte e freddo, da far venire quella pelle d’oca che ancora sentivo invadere il mio corpo. Il suo richiamo era forte. Ricordo ancora il pomeriggio in cui la vidi uscire di casa per inoltrarsi nel bosco. La mantellina rossa della defunta nonna era ormai un pallido ricordo. Indossava una larga veste troppo leggera per quel pomeriggio ventoso e portava un cestino il cui contenuto era celato da un grande fazzoletto. Camminava veloce. La mia matrigna era da giorni malata. Ero andata a controllare. Dormiva. I capelli bianchi umidi e spettinati, le coperte rovesciate a terra, la camicia da notte fradicia di sudore. Avevo spalancato la finestra. Il vento freddo soffiava sul suo corpo bruciante. Sorridevo, mentre lei apriva debolmente gli occhi.
«Tu stai sognando», le avevo detto, sorridendo.
Persa nel delirio riusciva appena a roteare gli occhi per guardarsi intorno. La sua voce ridotta ad un filo, quasi impercettibile, non avrebbe attirato l’attenzione di nessuno. Le sue gambe spezzate dalla febbre che sempre più spesso scuoteva il suo corpo improvvisamente smagrito e invecchiato, non le avrebbero permesso di muovere un solo passo. Ero uscita dalla stanza per andare nella grande cucina.
«Oh, sorellastra», dicevo ad alta voce caricando la legna nella stufa, «non dovresti uscire di casa lasciando il fuoco acceso. Potrebbe accadere di tutto», dicevo, spostando il tappeto proprio sotto la stufa in cui il fuoco, vivo, divampava. «Tutti sanno che io sono reclusa nella mia stanzetta e che non posso uscire e che mai infrango un ordine. Speriamo che nulla di grave possa accadere.»
Ritornata della mia stanza, avevo chiuso la porta, quindi aperta la finestra, avevo scavalcato. Lupo era lì fuori. Mi guardava negli occhi.
«Portami da lei». Il mio unico amico, fedele, muoveva il passo tornando a mimetizzarsi nella vegetazione. Chiudevo gli occhi, a tratti, concedendomi lunghi respiri, dopo mesi di reclusione. Lupo si fermava, lasciandomi godere la ritrovata libertà. Quasi avevo dimenticato della ragione di quel mio errare, della ricerca della sorellastra, perché qualcosa, in me, parlava di un torvo affare da scoprire. Con gli occhi alle fronde degli alberi e l’orecchio che seguiva il frusciare dei cespugli fra cui Lupo avanzava, inciampavo e cadevo a terra. In una piccola radura ombreggiata, rovesciato a terra, trovavo il vecchio cestino e di lato una bottiglia di vino, vuota. Lupo era nascosto fra i cespugli, lo sguardo puntato oltre un folto di tronchi. Il vento soffiava e nelle sue trame iniziavo a distinguere suoni nuovi che mi inquietavano e accendevano una febbre improvvisa. Gli occhi del Lupo erano i miei occhi. Lenta muovevo passi barcollanti. I nostri sguardi erano allineati, piangenti. Nuda dal ventre ai piedi, la schiena contro la corteccia d’un albero, la mia sorellastra lasciava senza freni che la sua natura perversa lordasse la purezza del bosco. Gli occhi chiusi, lei che si credeva al sicuro dalla nonna che l’aveva punita e che era morta, lei che sapeva la madre malata, lei che credeva il bosco mondo dal Lupo. Fra le sue gambe si dimenava colui che, unico e solo, aveva chiesto il mio nome nella primavera che ormai sembrava infinitamente lontana. Occhi negli occhi, io e Lupo, finalmente lo liberavo con un cenno solenne. Il ventre schiacciato a terra, i peli dritti, il muso a terra, gli occhi famelici che guardavano dal basso verso l’alto, la bestia andava a prendersi la sua vendetta con il mio assenso. E io intanto voltavo lo sguardo alla violenza, riprendendo la via di casa. Voltavo le spalle ai denti affilati, alle urla selvagge, alle richieste di aiuto di due giovani che perdevano il fiore degli anni che avevano appena sfiorato con la punta delle giovani dita. Il Lupo esisteva, sorellastra. Esisteva. Eri tu che, finalmente, non esistevi più.
La casa era già in fiamme. Il fumo usciva dalle finestre. Possibile che tutto fosse accaduto in così poco tempo? Avevo aspettato un attimo e fatto un giro intorno alla costruzione, piazzandomi sotto la finestra della mia matrigna, prendendo atto del fumo denso che usciva. Solo allora, certa che fosse morta o che nulla sarebbe stato possibile fare per metterla in salvo, ecco che iniziavo a urlare più che potevo. Urlavo e tiravo le vesti. A tratti scoppiavo a ridere e così mi ero fatta vicina alla casa, facendomi investire dal fumo e dal calore. Vomitando, tossendo e con gli occhi di fuoco, ero finalmente pronta ad accogliere il Cacciatore.
«È dentro!», urlavo, «Dentro!», e con la mano indicavo la finestra della mia matrigna. Urlavo, fingendo d’esser pazza, che ero uscita dalla finestra. Che non sapevo cosa fosse accaduto, perché non potevo assolutamente lasciare la mia stanza. E solo in quel momento, per un istante, avevo rischiato di tradirmi, perché entrambi sapevamo che era stato lui a decidere della mia lunga reclusione. Il fumo aveva intanto attirato i paesani, che arrivavano con l’acqua. E io urlavo. La baracca era ormai a pezzi. L’incendio facilmente domato. La mia sorellastra? Non lo sapevo. Non l’avevo sentita urlare. Forse non era in casa. Forse era uscita lasciando sola la madre. Il fuoco acceso per fare un poco di calore e poi dimenticato. Non potevo saperlo, io che ero reclusa. Io che non mi ribellavo agli ordini della mia matrigna, perché avevo imparato, negli anni, che infrangere un ordine avrebbe comportato una punizione troppo grande. Insopportabile. Il Cacciatore, fucile in spalla, guardava la casa distrutta, impietrito, mentre tutti gli abitanti del paese, come formiche impazzite, avevano presto domato l’incendio. Non lo avevano fatto per la mia matrigna, e nemmeno per la mia sorellastra, che negli anni aveva fatto uscire fuori delle mura domestiche tutta la sua malvagità, ma solo per paura che l’incendio si propagasse nel bosco, col vento e le foglie secche dopo un’estate particolarmente calda e poco piovosa. E infatti, una volta spento, tutti erano presto tornati alle proprie case. Solo il più anziano si era avvicinato a me e al Cacciatore – il volto rosso e le mani nere, con un lenzuolo bagnato intorno al corpo e sul capo, per dire che la mia matrigna era sul suo letto, in uno stato che era meglio non vedere e che avrebbe mandato qualcuno a breve per ricomporla degnamente. Aveva chiesto della mia sorellastra, dicendo che di lei, in casa, non v’era traccia e per sapere dove fosse. Ma il Cacciatore si era limitato a scuotere il capo. Non sapeva. Lupo si era allontanato.
Potevo sentire il fetore dell’alcool anche nell’aria pesante, dopo l’incendio. Lo guardavo e, per la prima volta, lo trovavo vecchio, debole, osceno.
«Dove è mia figlia?» Aveva chiesto all’improvviso, infrangendo il silenzio, sempre con il volto alla casa nera e fumante. Non aveva atteso, conoscendo già la risposta. Voltandosi aveva imbracciato il fucile, puntandolo contro il mio petto ansimante, contro i miei seni grondanti vita, futuro, sensualità. Allora mi ero voltata per portarla lì dove lui desiderava. Sua figlia, voleva andare da sua figlia. Chi ero io per lui? Nessuno. Niente altro che un errore di cui doveva sbarazzarsi. Aveva capito tutto. Non sapeva come avessi fatto, ma sapeva che ero stata io. Forse per la prima volta sapeva con certezza che io lo conoscevo come mio padre, che mi conoscevo come sua figlia. Nella sua mente dovevo morire di lì a breve, seguendo la stessa sorte della mia matrigna, della mia sorellastra. Erano finiti i tempi delle fette di torta, delle bottiglie di vino, delle ceste di vimini, delle tovaglie colorate, delle nonnine, eravamo alla resa dei conti. Credeva, mio padre, di tenere ben stretto fra le dita il destino, come imbracciava il suo fucile. Ma la sua mente era annebbiata dagli eventi inaspettati e dall’alcool, così come da me, la figlia odiata che era improvvisamente diventata donna, l’unica donna rimasta nella sua vita. Allora non sapevo quello che oggi so. Allora non potevo intendere cosa si agitava nel suo animo confuso. Ho impiegato anni per comprendere. Allora non sapevo neppure cosa si agitava in me. Sapevo solo che mio padre aveva intenzione di uccidermi. Sapevo d’esser stata partorita da una cagna svanita nel nulla. Sapevo che di lei non avrei mai saputo nulla. Sapevo che i miei fianchi e seni erano ormai quelli di una donna. Sapevo di aver paura e voglia di ridere e che il Lupo ci seguiva, ventre a terra, pelo dritto, fedele, pronto, anche lui in attesa di compiere la propria vendetta.
Il fucile era puntato contro la mia tempia. Il Cacciatore, mio padre, vuotava lentamente una bottiglia che per tutto il tempo era stata nascosta nella giubba, mentre non staccava gli occhi dai corpi senza vita dei due giovani, dal corpo martoriato della figlia, da quella Cappuccetto Rosso che, in ogni caso, avrebbe fatto una brutta fine, con o senza di me. Con o senza Lupo. Poteva premere il grilletto da un momento all’altro. Doveva essere indeciso. Il giorno andava lentamente indebolendosi e dal paese si alzavano voci indistinte, forse alla ricerca inquieta di quel giovane che in quella primavera ormai andata, aveva chiesto del mio nome. Perché non sparava? Eravamo fermi di fronte allo stesso tronco in cui aveva impedito, la scorsa primavera, che il mio corpo e la mia anima fiorissero. Era lo stesso tronco dove il corpo della mia sorellastra trovava la giusta ricompensa per la sua malvagità. Piegato dal dolore staccava il fucile dalla mia tempia.
«Dove è mia madre?» Avevo chiesto a quel punto. Silenzio. La bocca occupata a bere. «Perché mi avete fatto tutto questo?» Silenzio. Le labbra incollate alla bottiglia. «Perché non mi ammazzi?» Eccolo, il fondo. Era arrivato e, con quello, le prime parole: «Certo che ti ammazzo, sgualdrina, degna figlia di tua madre».
La bottiglia non aveva ancora toccato terra che il fucile era nuovamente puntato contro il mio petto, fra i miei seni. Mio padre, il Cacciatore, barcollava. Vecchio e debole, corroso dal vizio, non poteva esser lui, lì nel bosco, a riportare ordine e giustizia. No, tutti hanno sempre creduto a questa storia e pure lui, il Cacciatore, mio padre, era convinto d’esser colui che avrebbe messo le cose a posto col suo fucile, ruttando sentenze da ubriaco nel silenzio d’un bosco incantato.
«Credi di aver ucciso il Lupo?»
Era stato solo un attimo, il dubbio per la frase che m’ero lasciata scappare. E le sue urla, deboli e prive di vera convinzione, di vera volontà di vivere, si erano presto disperse nel crepuscolo.
Il Lupo era tornato. Tutti lo sapevano, al paese. Lo avevano cercato a lungo, battendo la foresta in tutte le direzioni. Nulla. Nessuno mi voleva, al paese. Ma dovettero farsi carico di me. Convinti che io fossi sempre stata trattata con amore, avevo finalmente una stanza umile, ma dignitosa. E mai avevo mangiato come da allora, da quando l’anziano del paese mi aveva ospitato. Avevo sempre lavorato, quindi le mansioni le svolgevo alla perfezione. Per diversi anni rimasi in quella casa. Silenziosa, laboriosa, austera. Gli uomini venivano a farci visita, e alcuni mi guardavano negli occhi. Nelle sere d’inverno il vecchio raccontava ai bambini seduti intorno a lui la storia d’una bambina gentile, della sua mamma e della sua nonnina. Raccontava delle malvage intenzioni di un Lupo cattivo e del coraggio di un buon Cacciatore. I bambini si stringevano l’uno con l’altro, nel sentire quella storia, che più faceva paura, più volevano ascoltare. Bambini divorati, lupi sventrati, pericoli ovunque, fame, menzogna. E poi il lieto fine. Il vecchio sapeva già tutto il male di cui è pieno il mondo. I bambini presto lo avrebbero scoperto. Per questo ascoltavo in silenzio una storia innumerevoli volte raccontata a metà. Perché solo le storie raccontate a metà hanno un lieto fine, mentre tutte le altre sono solo sangue e dolore e morte e invidia e vendetta.
Il Lupo non l’ho più visto, ma so che è qui, nei paraggi, perché non v’è bosco senza Lupo.
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