di Enrico Pompeo
Titolo: Kafka sulla spiaggia
Autore: Haruki Murakami
Traduzione di: Giorgio Amitrano
Editore: Einaudi
Pagine: 514
Sono molte le caratteristiche che distinguono lo stile, la voce, il timbro, il suono di uno scrittore. Eppure ci sono autori i quali, pur nella versatilità di toni, trama, personaggi, hanno un modo di raccontare che i lettori riescono subito a riconoscere, dopo aver incontrato uno o due libri del romanziere in questione.
Uno di questi è sicuramente Murakami, scrittore osannato internazionalmente, spesso considerato uno dei più accreditati nomi per il Nobel della Letteratura.
Una delle peculiarità di questo scrittore è sicuramente la capacità di rendere le sue storie un percorso di continua oscillazione tra la dimensione reale, concreta dell’esistenza e quella onirica, metafisica, spirituale. Certo, questo è tipico della cultura giapponese, con gli spiriti che accompagnano la quotidianità, ma nell’opera di Murakami questo aspetto diventa centrale, una sorta di prospettiva attraverso la quale osservare tutto ciò che avviene fuori e dentro di noi. I confini tra lo spazio e il tempo sfumano; i personaggi sono sempre caratterizzati dal muoversi, spesso senza chiara direzione, tra il mondo concreto e l’Altrove e ciò che avviene nel racconto è frutto di una contaminazione continua tra queste due dimensioni. Tutto questo sempre tenendo conto che stiamo leggendo un romanzo, quindi una storia inventata e perciò già di suo inserita in un contesto di finzione.
È perciò innegabile che il tema principale di questo autore è l’identità e la difficoltà a trovare una chiave univoca per racchiuderla. Murakami suggerisce che in ognuno di noi coesistono moltitudini di caratteri e che, forse, l’unico compito che la vita ci offre è quello di imparare a riconoscerle tutte, ad accoglierle, farci i conti e non la lotta.
Per tutto questo anche la trama nei suoi romanzi, in generale, ma in “Kafka sulla spiaggia“, in particolare, ha una rilevanza solo come spunto, come motore di partenza: nel libro si raccontano due vicende parallele, la prima è quella di un ragazzo quindicenne, dal nome improbabile di Tamura Kafka, che scappa di casa per sfuggire all’influenza nefasta del suo padre padrone, con cui convive dopo che la madre e la sorellina se ne sono andate quando lui aveva solo 4 anni. La seconda è quella di Satoru Nakata, un anziano capace di parlare con i gatti, che ha perso la capacità, già acquisita, di saper leggere e scrivere in seguito a uno strano incidente avvenuto in giovane età, durante una gita scolastica: tutta la classe, improvvisamente, sviene. Dopo un po’ tutti si riprendono, ma solo lui rimane segnato dall’esperienza, tanto da rimanere bloccato nello sviluppo mentale. Queste due esistenze troveranno poi un punto di incontro e scopriranno, loro malgrado, di essere intimamente e profondamente legati.
Libro denso e ricco, ma da affrontare, come ha detto una sua lettrice appassionata, perché: “Entri in un mondo altro dal vero che è un peccato perdersi”. Sicuramente Murakami è complesso e pieno di tante sfaccettature. Ma questa è una sua peculiarità.
D’altronde anche Calvino, nella prima delle sei ‘Lezioni Americane’, evidenzia che gli scrittori possono dividersi, per attitudine, tra coloro che lavorano in levare, con obiettivo la leggerezza, come Ariosto o Calvino stesso, e quelli che cercano la densità, con obbiettivo la chiarezza espositiva massima, come Dante.
Ecco, sicuramente Murakami appartiene alla seconda categoria.
La sua è una scrittura che lavora più in accumulo, che in sottrazione; in una messa in scena e molto meno verso il non detto; con una presenza dell’Autore che non cerca di scomparire, ma interviene.
Per tutto questo può risultare difficile e complicato, ma l’incontro con le sue opere, e con questo libro ancora di più, apre scenari che aiutano a comprendere la vastità della natura umana.
Buona lettura.
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