(Seconda Parte)
Di Ivan Nannini e Caterina Corucci
Foto di copertina di Christian Brogi
Stiamo per porre una domanda, ma Rovelli si inserisce…
“Scusatemi se vi do del tu, ma il mio è un mondo di tu, non di lei. Datemi del tu anche voi!” ci dice.
Noi eseguiamo, o meglio ci proviamo. E approfittiamo della piccola pausa per bere un sorso d’acqua mentre cerchiamo tra i foglietti sparsi qua e là quelle domande un po’ particolari, quelle che durante il tragitto in macchina sull’autostrada ci sembravano un po’ imbarazzanti ma che ora, in questo clima disteso e rassicurante non vediamo l’ora di porre all’attenzione di Carlo.
Qualche mese fa, leggendo un saggio di Ortega, “La ribellione delle masse” del 1930, nello specifico il capitolo su “Le barbarie dello specialismo”, mi sono imbattuto in una questione che mi ha colpito molto. Ortega definisce lo scienziato della sua epoca una sorta di “saggio ignorante”, mancante di una visione a tutto tondo della società, dei grandi temi, di un’interpretazione totale dell’universo che secondo la sua analisi è l’unica a meritare i titoli di scienza, cultura, civiltà europea. Cosa ne pensi di questa analisi?
È una domanda molto bella e la risposta è articolata. Penso che Ortega abbia ragione sulla questione: molta della scienza è fatta proprio così, c’è stato un periodo in cui ha un po’ scambiato la specializzazione come unica cosa da fare, c’è molto del vero in questa descrizione. Ma secondo me quella non è la “buona scienza”. Quello è uno strumento che ha senso soltanto se c’è dell’altro. Cioè, la specializzazione serve perché quando si fa una cosa bisogna farla bene. Se vado in montagna a fare una passeggiata e mi si rompe una scarpa, mi fermo per ripararla e devo farlo bene, non pensando al panorama o ad altro. Devo riparare la scarpa nel miglior modo possibile, concentrandomi e avendone le competenze il più possibile. Però l’importante non è riparare la scarpa, ma andare in giro, andare su. Riparare la scarpa è funzionale a qualcosa di più vasto. Allora la specializzazione ha senso perché è uno strumento potentissimo. Se noi moriamo a ottant’anni anni invece che a trenta è perché qualcuno ha studiato delle cose e si è specializzato.
La specializzazione non è fine a se stessa, quindi?
Esatto, è parte di un quadro generale. Per cui se uno si dedica solo alla scarpa e si dimentica la montagna ha buttato via il cuore di quello che stava facendo. La scienza migliore non è quella.
La scienza in sé non è bene o male, si fanno cose buone o cattive in continuazione che ci piaccia o no, ma la scienza che ci piace, quella utile per l’umanità, ci dà le cose concrete, soprattutto funziona e ha senso, secondo me, quando si integra con il resto e cerca essa stessa una visione generale. Per questo per me è così importante guardare la visione generale della scienza che non è in contraddizione con il sapere artistico filosofico umanistico in senso generale, insomma con il resto del sapere umano. Il sapere umano è una complicata rete ma non vedo contraddizione. Vedo discussione, punti di tensione, ma sono quelli buoni, si impara. Quindi io penso che un pezzo della cultura contemporanea sbagli, quel pezzo post Heidegger che dice che la scienza è tecnica, negazione dell’uomo, non intelligenza, non sapere; questo vuol dire non aver capito cosa è il pensiero scientifico. Il pensiero scientifico è parte del sapere dell’umanità che cresce.
Quindi nello specialismo ci può essere questo rischio. Ma oggigiorno la situazione è ancora quella descritta da Ortega?
Gli scienziati sono tanti e sono diversi, c’è un sacco di scienza oggi che è terribilmente aperta. Il mese scorso, in Canada, prima di venire in Italia, ho partecipato a una grossa conferenza in cui si parlava di scienza anche con dei filosofi. Tra i presenti, i due terzi erano fisici e un terzo filosofi. Nei due terzi dei fisici c’erano due mondi completamente diversi: il mio mondo – quello della gravità quantistica – e quello di chi fa informazione quantistica – Quantum Information – che, per quanto riguarda il tipo di problemi affrontati, sono lontanissimi. Però ci sono delle tematiche molto generali comuni delle quali si può parlare, anche con i filosofi. Ci si capisce anche se parliamo due lingue diverse. Quando non è così magari si scopre che c’erano cose che non sappiamo e allora si può imparare, e superare i malintesi.
Tu sei dichiaratamente ateo, in questo libro hai usato almeno due volte la parola Dio. Usare questa parola, e con la D maiuscola, fa pensare a una persona credente, oppure hai cercato di facilitare chi legge nel capire la metafora?
È proprio una metafora. È un modo di parlare che anche Einstein usava moltissimo. Per scoprire come funzionava la natura, indovinarla, formulava una cosa del genere: Dio ha creato la natura, io devo scoprire i misteri di Dio. Ma è un linguaggio. Einstein è uno spinoziano. Spinoza formulava tutto in termini di Dio. Bisogna capire di cosa sta parlando: Spinoza è ateo, per Dio intende l’insieme della natura con le sue regole, l’insieme delle cose che esistono. È un Dio che non è persona, non è panteismo, è solo la parola che usa.
La parola Dio è flessibile all’infinito, una parola di cui nessuno ha il copyright. Un ateo è uno che non crede in Dio, ma in quale Dio non crede? Qualcuno può dire che il suo Dio è il denaro, allora è ateo? Sì, anche se parla di Dio. Ogni religione ha il suo Dio, ed è talmente una cosa vaga che è difficile non usarla.
Allora anche senza parlare di un Dio che giudica, quanto influisce la morale nella responsabilità degli uomini e nello specifico dello scienziato?
Io la sento tantissimo per vari motivi ma soprattutto perché uno scienziato è prima di tutto un essere umano, un cittadino di questo mondo, quindi ha la responsabilità prima di tutto come uomo, non come scienziato. La responsabilità ce l’abbiamo tutti e il rischio è proprio quello di darci dei ruoli che ci liberano dalla responsabilità. Un politico che firma il via alla guerra perché questa è uno degli interessi del paese e dice che firma perché ciò rientra nel suo ruolo di politico ma come essere umano non lo farebbe, non mi piace. Lui è prima di tutto un essere umano, quindi deve prima considerare questo.
Il soldato che spara perché deve ubbidire agli ordini in quanto soldato deve pensare che prima di tutto è un uomo ed è come uomo che ha principalmente la responsabilità.
In particolare, ancora di più, la conoscenza è potere, dall’antichità ad oggi è stato così. E siccome la scienza è costruzione di conoscenza, essa partecipa al potere, lo nutre. Dà armi al potere, non solo perché i fisici hanno creato la bomba atomica, ma per tutto quello che fanno. Questo aumenta la responsabilità.
Il tema della responsabilità è molto complesso. La scoperta dell’atomo di Einstein ha portato alle centrali nucleari come alla bomba atomica. Ogni scoperta porta in sé una certa dualità?
Sì. Einstein ne è proprio un esempio. Lui si è tormentato a lungo. Da un lato fu lui a scrivere a Roosevelt di produrre la bomba atomica sennò l’avrebbero prodotta i nazisti. Che poi, invece, non lo stavano facendo. Si è molto tormentato per questo.
Poi c’è un altro motivo per cui esiste la responsabilità dello scienziato, ed è la responsabilità dell’intellettuale. Sia lo scienziato che lo scrittore o il regista di film, sono pagati dalla società per pensare, poi se uno vuole scrivere solo poesie d’amore è un altro discorso. E io questa cosa la sento molto.
Prima della guerra in Ucraina ho proposto un’idea per arrivare ad accordi internazionali sul disarmo e girare le risorse per gli armamenti sui problemi dell’umanità, ho raccolto le firme di 60 premi Nobel compreso il Dalai Lama. Anche il Papa aveva sostanzialmente appoggiato la cosa, che aveva avuto abbastanza risonanza in Europa, Asia, America del Sud e tanti altri posti. Poi è scoppiata la guerra in Ucraina, e tutti quanti a fare armi. Io nel mio piccolo passo una parte del mio tempo a utilizzare quel poco di influenza che mi ritrovo per spingere a non ammazzarci l’uno con l’altro. Lo sento ancora più forte in questo momento, proprio perché mi sento impotente. La mia lettura della situazione attuale non è: “i Russi sono cattivi e noi li stiamo arginando”; certo, loro sono cattivi ma l’Occidente in scala anche più larga ha fatto e sta facendo la stessa cosa, quindi io sento tanta ipocrisia. Tutti a arginare i Russi cattivi mentre anche noi esercitiamo la violenza. La Russia ha violato i sacri confini, anche noi lo abbiamo fatto. Non sto scusando Putin, sento solo ipocrisia. La direzione in cui vorrei che andasse il mondo è quella di collaborare invece di scontrarsi gli uni contro gli altri. Il punto non è: noi dobbiamo essere più forti e avere più armi, dominare sul mondo intero così imponiamo a tutti il nostro punto di vista. Invece è quello che stiamo facendo.
Quindi imparare a convivere?
Sì, con le differenze, i difetti altrui, i difetti nostri, e trovare un equilibrio.
Prima ci ha parlato di un nuovo libro. Ce ne vuole parlare?
(Caterina non ce la fa proprio a mantenere a lungo il “tu” …)
Allora, dopo aver scritto “Sette lezioni” ho scritto due libri più sostanziali, “L’ordine del tempo”, sul tempo, e “Helgoland”, sulla meccanica quantistica, che sono più di divulgazione. Adesso vorrei tornare a una scrittura più leggera e semplice. Una cosa breve, raccontando la ricerca che sto facendo in questo momento – sto lavorando sui buchi neri e i buchi bianchi – un po’ per dire che cos’è concretamente una ricerca teorica, poi spiegare come è nata l’idea, cosa sono, che indizi abbiamo che questa cosa succeda e non succeda. Sarà un libretto agile, con quest’impronta qua. Sempre con Adelphi. Ma ancora sono in piena scrittura, scrivo riscrivo… scrivo tanto poi butto via….
In questo senso, è letteratura: la divulgazione scientifica è fatta non così. Questo è scritto per chi non sa niente di scienza.
La divulgazione scientifica invece è fatta per chi è appassionato di una cosa, che vuole tutti i dettagli, parte da una base e vuole sapere altro. Io non scrivo per quelle persone lì, io scrivo per chi non sa niente, per dirgli “guarda che ci sono delle cose belle”, e scrivo anche per chi è del mio mestiere, gli offro una prospettiva diversa. I miei libri piacciono a chi non sa niente di scienza e agli scienziati, i due estremi. Gli studenti invece non sono contenti di leggere questo, perché non è quello che hanno studiato, trovano le cose diverse dai loro testi, dette in modo diverso. Quando uno è giovane pensa che il libro di testo sia sacro, ma questo non è vero, un testo lo scrive uno, un altro scrive un’altra cosa. Quindi nella categoria intermedia, quelli che sanno un po’, sono quelli che amano meno i miei libri.
Un’ultima domanda, tornando al tuo libro “Sette brevi lezioni di fisica” abbiamo notato, parlando con persone che lo hanno letto, che la parte che incuriosisce di più, che cattura, è quella sul tempo. Perché incuriosisce così tanto?
Secondo me il tempo incuriosisce tanto perché è una cosa emotiva. Per noi il tempo non è mai una cosa neutra. Il futuro ci spaventa, c’è un desiderio, è connesso direttamente con le emozioni. Soffriamo perché il tempo ci porta via delle cose, facciamo progetti per il nostro futuro.
Non è come studiare una coccinella. Le coccinelle sono carine ma puoi farne a meno, del tempo no. Il tempo per noi non è “le lancette dell’orologio”, ma il ricordo del passato e il desiderio del futuro. L’orologio non ha memoria e non desidera, è sempre nel presente. Noi non siamo mai nel presente, siamo nella nostra storia e nei nostri ideali, nelle paure. Siamo nel tempo, e quindi parlarne vuol dire andare a toccare la nostra struttura emotiva profonda, ecco perché ci tocca così tanto.
Dopo quasi due ore è tempo di togliere il disturbo, abbiamo paura di abusare della sua disponibilità anche se Rovelli non sembra per niente avere fretta. Nel salutarci dice che ora andrà di là e si metterà a scrivere; di solito lo fa a letto, appoggiando il portatile sulla pancia.
Ma non è scomodo?
“No no, è bellissimo scrivere così.”
E piega la testa verso il petto, digitando qualcosa sulla maglietta grigio chiaro.
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