(Prima Parte)
Di Caterina Corucci e Ivan Nannini
Foto di copertina di Christian Brogi
“Venite venite, sono quassù!”
Dopo aver citofonato su una vecchia pulsantiera in ottone, Carlo Rovelli, uno dei fondatori della teoria fisica della gravità quantistica dello spazio-tempo “a loop”, inserito fra i cento migliori pensatori del pianeta, come si legge nella lista della rivista Foreign Policy, ci invita a salire.
Soltanto una settimana fa non avremmo scommesso un centesimo su questa possibilità. Tantomeno che rispondesse alla nostra mail e che proprio in questi giorni, lui che divide il suo tempo fra il Canada e la Francia, fosse qui in Italia, a Verona.
Appena arrivati sul pianerottolo ci invita ad entrare in casa accogliendoci come dei vecchi amici. Noi gli porgiamo dei dolcetti che lui, dopo averci ringraziato, comincia a scartare sul tavolo.
“Oh io li adoro!”, esclama giungendo le mani, “Li vogliamo mangiare subito? Volete un caffè, dell’acqua?”
Dopo giorni di congetture, immaginandoci questo momento con tensione, disagio o addirittura ipotizzando che Carlo Rovelli non fosse il vero Carlo Rovelli ma solo un tizio che fingeva di esserlo (in questo caso avremmo intervistato ugualmente il finto scienziato), insomma dopo tutte queste derive mentali eccoci qua, davanti a lui in persona, a nostro agio sul divano, pronti ad iniziare con le domande.
“Sette brevi lezioni di fisica” il libro che ci ha dato la spinta a contattarla, ci ha colpito molto perché parla di fisica ma è anche letterario, ci sono delle parti di vera poesia, è un tutt’uno. Da dove arriva l’idea di scrivere un testo di questo genere?
Sono due percorsi diversi in realtà, uno generale che riguarda tutta la mia vita e uno specifico legato a questa strana avventura di scrittura. Quello generale è che io mi sono appassionato alla fisica tardi, ero già un ragazzo. La mia passione non è mai stata la tecnica della scienza, il dettaglio del lavoro scientifico. La mia passione è sempre stata l’aspetto della scienza che si occupa di come funzionano le cose “in largo”. La mia cultura è forse più filosofica e letteraria che non scientifica. Sia per gli studi che ho fatto al liceo, sia per le mie letture.
Il mio lavoro è nella fisica, la scienza è fatta di tante persone che fanno cose diverse, c’è chi fa i conti, chi ha le idee, chi fa esperimenti; ci sono tante cose nel fare scienza, tra cui la visione generale di dove stanno i problemi, di dove andare. La parte della scienza che mi piace è proprio questa: cosa sappiamo del mondo, cosa non sappiamo del mondo e come si mettono insieme le cose. Io non ho mai visto la scienza come separata dal nostro sapere sul mondo. Un po’ anche per questo approccio storico che è in tutta la cultura italiana, per cui la scienza è il percorso attraverso il quale si imparano delle cose. Quindi un percorso culturale, filosofico, sociale, dove tutto si intreccia. Questa è la visione generale, io sono cresciuto così. Anche quando parlo di scienza nei convegni spesso parlo dei problemi larghi, delle questioni concettuali.
Prima di quel libro avevo scritto solo cose concettuali. Quel volume lì è nato per caso, direi un colpo di fortuna. Ho fatto una conferenza su Dante e Einstein perché avevo scoperto, leggendo dagli scritti di un matematico americano, che la forma dell’universo di Dante è una tre-sfera, la stessa che ipotizzò Einstein seicento anni dopo, cioè una palla con la terra in centro e un’altra con Dio in centro, una intorno all’altra. Il direttore del supplemento culturale domenicale de Il Sole 24 Ore, che allora era Massarenti, venne a conoscenza di quello che avevo detto e si dimostrò interessato, chiedendomi di pubblicarla. La cosa piacque e mi chiese di mandargli altro per il giornale, ogni tanto. Quindi cominciai a scrivere cose di cultura generale per Il Sole 24 Ore domenicale. Un giorno la sede mi chiese di scrivere qualcosa sulla gravità quantistica, che è il mio campo di ricerca specifico. Risposi che la maggior parte degli italiani non sa cosa sia la relatività, non sa cosa è la gravità, non sa cosa sono i quanti. E lui mi disse: “Scrivi tre articoli, uno per ogni argomento”. La presi come una sfida: perché no? Allora uscirono i tre articoli. A seguito di questo mi chiamò Adelphi chiedendomi: “Perché non allunghi un po’ gli articoli e ne fai un libro?” Risposi che non è serio fare un libro su tre articoli, e loro: “Ne puoi scrivere altri tipo questi, è bella questa cosa della fisica contemporanea”.
E questi tre primi articoli, che poi sono diventati i primi tre capitoli, erano già in questa forma “semplice”?
Più o meno erano quelli che ora sono i primi tre capitoli del libro. Adelphi li aveva trovati così letterari, piacevoli, in grado di mettere insieme la scrittura e il parlare della scienza contemporanea, non quella di Galileo. Io la presi un po’ come una sfida ma in realtà dissi di sì perché metà delle cose che ho studiato da ragazzo erano sui libri Adelphi. In quegli anni l’editoria italiana era da una parte di ideologia cattolica, crociana¸ dall’altra parte marxista, di sinistra – Feltrinelli, Einaudi -. Queste erano le due grandi parrocchie e non c’era altro. Mancavano in realtà tre quarti del pensiero del mondo. Ecco, Adelphi era tutto il resto, tutta la letteratura del centro Europa, talvolta con un sacco di idee strane. Quindi era una ricchezza, per la mia generazione di italiani; allora non c’era internet dove si poteva trovare altro. L’idea di essere io un titolo Adelphi, con queste copertine meravigliose, mi conquistò. Mai avrei immaginato il successo che ha avuto. Questo libro l’ho scritto un po’ come un esercizio di stile e un po’ per raccontare con tutta libertà il cuore di quello che per me è la scienza, come io la vivo veramente e il motivo per cui mi piace la scienza, mi affascina. Perché ho la sensazione che non si sappia una cosa: quando la gente pensa alla scienza non pensa a questo cuore pulsante che ridisegna il mondo davanti ai nostri occhi. Allora provo a raccontarlo.
Calasso, che allora era patron di Adelphi, morto un anno fa, si appassionò da subito al testo, mi chiamò a Milano e mi disse: “Mi piace come scrivi. Tu scrivi quello che ritieni importante, non preoccuparti di vendere o non vendere”. Furono stampate quattromila copie, adesso siamo a oltre due milioni e secondo Wikipedia questo è il libro più tradotto fra tutti quelli italiani, dopo Pinocchio.
È evidente che nonostante si parli di fisica, tutti i concetti espressi nel libro potrebbero essere riportati in un discorso poetico o filosofico. E tornerebbero.
Apro il libro e leggo quel pezzo che mi fa venire i brividi. Lui sorride.
“Per adesso, questo è quello che sappiamo della materia. Una manciata di tipi di particelle elementari, che vibrano e fluttuano in continuazione fra l’esistere e il non esistere, pullulano nello spazio anche quando sembra che non ci sia nulla, si combinano assieme all’infinito come le venti lettere di un alfabeto cosmico per raccontare l’immensa storia delle galassie, delle stelle innumerevoli, dei raggi cosmici, della luce del sole, delle montagne, dei boschi, dei campi di grano, dei sorrisi dei ragazzi alle feste, e del cielo nero e stellato la notte.”
Questo è un passaggio importante perché collega anche il rapporto emozionale che abbiamo col mondo, che non è e non può essere negato dalla scienza, fa parte della realtà. La scienza si occupa di tutto, comprese le nostre emozioni, ma essa stessa si nutre di emozioni. Chi la fa sono esseri umani, non è pura intelligenza fuori dalla realtà, che guarda dall’esterno. Quella è l‘idea ottocentesca o addirittura settecentesca di scienza, non corrisponde a quella reale, fatta di esseri umani che la praticano perché hanno passioni, interessi.
Quindi, lo scienziato un po’ si scherma dalle passioni perché non vuole essere confuso, per non perdere la concentrazione, ma sono le stesse passioni, ad averlo mosso. Io penso che noi abbiamo un senso di completezza quando riusciamo a trovare un linguaggio comune che parla sia delle nostre emozioni e motivazioni, sia di quello che impariamo sul mondo dal pensiero scientifico o leggendo Dostoevskij.
Questo discorso delle emozioni mi ha fatto pensare a una cosa. Lei dice che quando c’è passaggio di calore da un corpo a un altro si ha lo scorrere del tempo: dal passato si va al futuro. Ho pensato al fatto che se tra due persone non c’è scambio di calore, come può accadere in un abbraccio, se una delle due resta fredda insomma, e non c’è scambio di calore, fra quelle persone non ci sarà futuro.
Lui ride.
È l’interazione, quello che ci tocca e ci muove. Non siamo in errore se si usano metafore e si va avanti e indietro, è così che funziona il pensiero. Capiamo tecniche sugli atomi sulla base delle nostre intuizioni con le cose usuali, capiamo come funziona un sistema complesso sulla base della nostra esperienza, perché noi stessi siamo sistemi complessi.
Bisogna stare attenti ovviamente a non esagerare con le analogie vaghe, però non sono due mondi separati: quello che succede quando abbraccio una persona è qualcosa che si mette in moto, non è fuori dalla realtà fisica, ne fa parte. È difficile descriverlo in maniera dettagliata perché è complesso ma sempre realtà fisica è, le regole di base sono le stesse.
Da un po’ di tempo mi scrivo con un musicista, Erik Battaglia, che sta cercando un modo di pensare alla musica che non sia né: “la musica è puro spirito indicibile fuori dalla realtà, ineffabile, spirituale” perché sono parole vuote, non significano niente, né: “la musica è solo la vibrazione dell’aria”, una cosa che posso descrivere fisicamente come la vibrazione dell’aria. Lui diceva: comincio a capire che c’è una possibilità di parlare della musica che non è né questo né quello. Senza congelarla, rendendosi conto che la musica non è soltanto un movimento di timpani che si muovono avanti e indietro. Il senso della musica è che quel tipo di struttura reagisce con quello che c’è nel nostro cervello e crea delle emozioni, perché ci sono delle relazioni che si formano tra il suono e noi, fra noi e i nostri ricordi. Tutto un mondo di relazioni, senza per questo dover pensare a un qualcosa al di fuori della natura, a uno spirito fuori dalla natura.
Si parla sempre di riunire queste cose, quindi.
Esatto, e bisogna trovare dei linguaggi che traducano.
Mi scuso per quello che sto per chiederle, è sicuramente una domanda strana. Lei riesce a tenere una tazzina di caffè in mano senza pensare alle interazioni della tazzina con le altre cose, oppure, riesce a guardare un tramonto senza pensare alla rotazione dei pianeti? Insomma ce la fa a guardare le cose “senza il camice dello scienziato”?
In filosofia c’è molta discussione, adesso, tra l’immagine scientifica del mondo e l’immagine convenzionale. Comunque la risposta è sì, completamente. Vedo una tazzina e vedo il caffè che è dentro, ma se vedo penso a quello che so in più sul liquido del caffè. Questo non è una negazione di quello che vedo, anzi, vedo più in profondità.
Faccio due esempi. Il primo: io guardo il tramonto, ce ne sono alcuni che commuovono. Se mi viene in mente che non è il sole che si sta muovendo ma siamo noi su questa grande cosa che si sta girando, ciò non diminuisce lo spettacolo, anzi, lo rende ancora più straordinario. Si aggiunge una dimensione in più di comprensione. Uno guarda il sole e pensa: sono io che mi sto muovendo all’indietro. Il tramonto resta bellissimo anche se so che non è il sole che si muove.
L’altro esempio è un po’ diverso perché non è scientifico e forse proprio per questo è più interessante, secondo me. Vedo una montagna coperta da una foresta meravigliosa, con un lago che vi si specchia. Quella foresta sembra un velluto verde ed è bellissima così, ma io so perfettamente che se ci vado dentro non è un velluto verde sul fianco della montagna: è una cosa complicatissima dove ci sono dei grandi tronchi, foglie, rami, animali, insetti. So che c’è tutto questo, ma ciò non nega la visione della montagna che sembra un velluto verde, è solo una complessità in più. Per cui, se guardo quest’acqua e dico che in una goccia ci sono miriadi di molecole che sbattono le une contro le altre, non è diverso dal vedere la foresta e so che dentro ci sono gli animaletti. È la stessa cosa. So che la realtà che vediamo è un’immagine della realtà, che è fedele, buona, ma non è che un’approssimazione, la realtà è molto più complessa perché è più grande e più complessa.
Anche a noi, avendo a che fare con la letteratura, ci cade spesso l’occhio sulla metafora scontata, sull’aggettivo pigro. Una cosa del genere succede anche ascoltando la musica se uno se ne intende appena un po’.
Sì, ma ti cade l’occhio o l’orecchio su quello che non funziona. Però se funziona… se un tramonto è bello è bello, che tu lo guardi con occhio da scienziato o no. Lo sguardo scientifico non toglie magia a quello che vedi, l’aggiunge. Oltre a quello che si vede c’è oltre, la foresta è bellissima dal di fuori ma se ci vai dentro scopri altre meraviglie.
E la scienza per me è anche la consapevolezza che lo sguardo usuale sul mondo è uno sguardo parziale, cioè quando so le cose non è vero che so tutto: so un aspetto, vedo un pezzettino, allora mi incuriosisco, c’è dell’altro ma non mi disturba sapere questo, anzi.
Col passare dei minuti siamo sempre meno rigidi, sul divano dello scienziato, così ci sentiamo di fare una domanda per toglierci quella curiosità che abbiamo da giorni e giorni.
Perché ha accettato di rilasciare un’intervista a una piccola rivista letteraria come la nostra? Ora possiamo confessarglielo: fino all’ultimo non credevamo che davvero fosse lei.
Ivan spiega meglio: Dopo aver letto il libro, ho detto in redazione che le avrei scritto per chiedere un’intervista. Caterina non mi dava speranze, io invece le ho detto: ci provo. Ho fatto anche un ragionamento strano… per la teoria dei quanti, proviamo a interagire; se ci credi, tutto è possibile. E lei ci ha risposto: “perché no?”. Fa parte di una sua filosofia?
Io effettivamente ricevo un sacco di richieste, di tutti i tipi, da chiunque, non per cattiveria ma devo dire di no a tutti, sennò come faccio?
Appunto, perché a noi sì?
Perché la vostra mail è stata fantastica, deliziosa. Poi ho guardato il vostro sito, belle le cose che scrivete, le interviste, davvero. Allora, ho detto: volentieri. Poi, per fortuna sono in Italia; c’è da dire che di solito quando passo da Verona sono impegnatissimo, ma oggi sono tranquillo, sto scrivendo un nuovo libro…
Un nuovo libro?
Continua…
(Seconda parte venerdì 29 luglio)
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