di Enrico Pompeo
Titolo: Casa è dove fa male
Autore: Massimo Cuomo
Editore: e/o
Pagine: 188
Ci sono dei periodi in cui alcuni elementi sovrastano tutti gli altri e in questi frangenti l’arte riflette sulla realtà e li interpreta, li racconta, non con intento documentaristico ma come specchio, per farci cogliere un riflesso, un segno che era evidente, ma non immediato da individuare. Non è un caso, quindi, che in quest’ultimo anno, in Italia siano usciti molti romanzi che hanno come protagonisti le case, le nostre abitazioni. C’è quello di Baiani, per esempio, ‘Il Libro delle case’, o quello di Petruccioli: ‘La Casa delle madri’. E questo di Cuomo.
C’è il bisogno, l’urgenza di dare voce, parola, a un luogo dove, causa emergenza sanitaria, abbiamo passato molto più tempo di prima e questo spazio privato è così diventato, per necessità, in lunghi segmenti di tempo, anche il nostro unico spazio pubblico.
E a tutti è sembrato che gli armadi, le mensole, gli oggetti ci chiamassero, ci inviassero messaggi, anche loro sorpresi e forse un po’ infastiditi dalla nostra presenza così ingombrante. Anche le stesse pareti: noi siamo stati inerti, chiusi e abbiamo finito per assomigliare a un divano, ma, nel contempo, anche la poltrona ha cominciato ad assumere comportamenti umani.
In questo romanzo, infatti, chi racconta è proprio un palazzo sepolto dentro la nebbia alla periferia di Mestre e dal suo punto di vista ci mostra le abitudini, le vite degli inquilini che abitano nei suoi quattro piani, con tutte le storture e i tentativi di dare un senso alla loro esistenza.
Da contraltare a queste presenze fa una colonia di topi, di pantegane che dalle cantine, dal sottosuolo, di notte, risalgono per i tubi, dentro le intercapedini tra i muri, a delineare una segreta spartizione di luoghi, popolati dagli esseri umani o da questi animali a seconda dell’alternarsi del giorno e della notte.
Questi roditori, sporchi, dominati da istinti primordiali, sono così diversi da coloro che vivono rinchiusi nelle loro stanze, come l’inquilino con i capelli già bianchi che vive al terzo piano, che ha lasciato famiglia e figli per vivere in attesa di una ragazzina che ogni tanto lo viene a trovare per brevi amplessi furiosi?
Che differenza c’è tra loro che setacciano le dispense alla ricerca delle briciole, muovendosi furtivi di notte, e chi divora il cibo con la stessa voracità, i Chinellato, madre, padre e figlio, tutti e tre ossessionati dal cibo e dall’ossessione che il grasso possa nascondere quello che hai dentro?
Eppure, in questo libro così ipnotico, dal ritmo trascinante, niente è come sembra e ogni atto può tramutarsi nel suo contrario e capita che chi si nasconde dietro una porta prefigurando un atto di violenza, si fermi, per una parola non detta o intonata in modo nuovo; oppure che dopo il ritorno di colei che si aspettava da così tanto tempo, in un uomo sorga spontaneo il desiderio di farle male.
Perché forse, quello che davvero ci distingue dalle bestie è solo la nostra imprevedibilità, la nostra complessità e contraddittorietà.
Cuomo lo sa bene, da profondo conoscitore del nostro animo inquieto e ci trasporta dentro questa storia che sfugge a ogni catalogazione. Non è un libro giallo, anche se ci sono dei piccoli misteri; non è un racconto psicologico, d’avventura, un corale. O meglio, tocca ogni territorio ma rimanendo altro, situandosi in una dimensione che riesce a mantenersi in equilibrio tra tante correnti, come un equilibrista sulla fune.
E colpisce la capacità di questo autore, già letto e apprezzato in ‘Piccola Osteria Senza Parole’ e ‘Bellissimo’, sempre per i tipi di e/o, di riuscire a mantenersi fedele a se stesso, pur mutando registro, tonalità, senza perdere in forza espressiva, in nitidezza nella caratterizzazione dei personaggi, nel ritmo di scrittura.
I suoi sono libri che non si dimenticano, che ti spingono a entrare dentro la pagina, a misurarti con quello che viene raccontato, a porti domande su quanto di te ci sia in ciò che stai leggendo.
Da non perdere.
Buona lettura.
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