di Tommaso Aramaico
Nel tempo, negli anni, ne ho conosciuti tanti, di personaggi. L’incontro con alcuni di loro è ancora vivissimo. Allora, da ragazzo, le loro vicende e la loro sorte spesso tragica, era motivo di gioiosa sofferenza e commozione. Leggevo e rileggevo le loro disgrazie, i loro slanci, le loro rovinose cadute. Chiudevo i libri e mi dicevo che così doveva essere. E del resto, al principio, ero un sedicenne sbattuto qua e là da esperienze e pensieri nuovissimi, di cui neppure avevo immaginato l’esistenza fino a poco tempo prima. Un giorno ero un Werther di periferia, l’altro ancora un Otello balbettante, l’altro ancora un Amleto dubitante o, ancora, un Raskòl’nikov chiuso nella sua stanzetta troppo piccola per contenere neppure io sapevo cosa. Non sono l’unico. So di essere parte di una numerosa schiera di inguaribili innamorati, tutti travolti e trascinati dalle sirene del romanzesco. Qualche tempo fa, però, nel mettere in ordine in certi scaffali impolverati, mi sono ritrovato fra le mani uno di quei libri della giovinezza, il prezzo ancora in lire. Sfogliandolo ho sorriso nel vedere le sottolineature, le parole cerchiate, qualche etimologia, però poi nel tratto della matita lievemente corroso dal tempo – saranno passati quasi trent’anni – ho letto un appunto, poche parole.
Se solo avesse avuto qualcuno ad aiutarlo…
Non ricordavo quel pensiero. Quell’atto di pietà verso un ragazzo fatto di parole su carta, mi ha fatto riflettere. E se invece di accontentarmi di godere delle loro sventure (che sono sublimi) facessi qualcosa per loro? Nessuno lo ha chiesto. Tantomeno loro. Per quanto concerne i loro creatori, beh, loro sono morti e sepolti e, sopratutto, vivono in una dimensione così alta e altra che non degnerebbero d’un battito di ciglia l’esperimento d’uno sconosciuto che si dibatte in una stanza – per certi versi non meno sfortunato di un qualche loro personaggio secondario…
Me lo sono detto: alcuni di loro li voglio aiutare, strappare ai loro indimenticabili tramonti, restituirli alla gioia, a qualche forma di speranza, a vite forse più prosaiche e non degne d’esser ricordate per l’eternità, certo. Una seconda opportunità, tutti dovrebbero averne una. Avevo sempre e solo pensato a me, sempre alla ricerca di significati, ma per loro, mentre io sprofondavo nel piacere della lettura, beh, per loro in ballo c’è qualcosa di più, la vita. Ce ne sono tante di queste vite, quindi è meglio iniziare…
“Se vuoi sei libero”, Epitteto, Diatribe, I, 17, 28.
Gregor Samsa
Giravano voci terribili e irrispettose sul mio amico Gregor Samsa, in ditta. Il procuratore aveva parlato di scandalo e di una insopportabile mancanza di senso del dovere, batteva i tacchi dei mocassini parlando della fiducia tradita, della assoluta necessità di liberarsi di un vero e proprio mascalzone. Il direttore ascoltava, perso nel silenzio di chi aveva già emesso il verdetto. Colpevole. Licenziato. Ero esterrefatto. E siccome per certi guai finanziari negli ultimi tempi ero stato costretto a lavorare senza sosta e a trasferirmi in un centro più piccolo, quella stessa mattina mi sono precipitato sul primo treno per andare a sbrigare certi importanti affari per poi andare a trovare il mio vecchio compagno di studi.
Per ben tre volte sono stato lasciato sulla porta di casa dal signor Samsa, io che ero come un figlio, per loro. È malato? Chiedevo. S’è macchiato d’una qualche grave colpa? Parlavo tanto per parlare, e mi vergognavo quasi di fare quelle domande che io stesso reputavo offensive, perché portavano l’ombra del dubbio su Gregor che, per chiunque lo conoscesse, era l’essere più virtuoso che si potesse conoscere. Non poteva essersi macchiato di nessuna colpa umana, terrana.
Lui per me, non vogliatemene, è più d’un semplice amico, bensì un fratello. Niente, neppure il cappello maltrattato dalle mie mani piccole e nervose mi valso il permesso di mettere piede in quella casa dove avevo passato molte ore in loro compagnia, spesso assorti, mentre Gregor leggeva una qualche antica storia.
Persino il signor Samsa, un tempo vecchio, era d’un tratto diventato imperioso mentre mi impediva l’accesso alla casa. Dietro di lui vedevo la sorella e la madre in lacrime. L’unica che, forse, mi voleva far entrare, sperando che potessi fare qualcosa. Ma cosa? Non avevo idea di cosa fosse accaduto. Si scusavano, ma erano inamovibili. Gregor non c’era. Gregor non riceveva. Gregor non rispondeva a nessuna lettera o biglietto. Gregor non lasciava nulla da dire. Dovevo star sereno, mi diceva, per nulla sereno, il signor Samsa. Non c’era nulla per cui preoccuparsi.
Dopo il terzo rifiuto e non sopportando la finestra di Gregor, sbarrata pure in pieno giorno, mi sono fatto ardito e ho corrotto la donna delle pulizie con i pochi soldi che avevo in tasca. Ed ecco che quel pomeriggio, avvicinandomi a quella finestra senza farmi vedere da nessuno, la trovavo accostata. Si può rubare quanto ci appartiene? No, era mio diritto entrare in quella casa per incontrarlo. Gregor era mio amico da quanto eravamo bambini. Magrolino, alto e sorridente. Rumoroso, a tratti, ma su tutto capace di enormi silenzi e spaventosi accessi di tosse. C’era nei suoi occhi, quando lo osservavi con un poco di attenzione, la traccia di un silenzio che abbracciava tutte le cose. Cosa teneva per sé? Nessuno di noi, neppure io, poteva capire.
Non appena entrato dalla finestra, avevo subito visto la sua diversità. Era sdraiato a terra, vestito come dovesse uscire per andare a lavoro, gli occhi vivissimi, fissi al soffitto. Era ferito al volto e, me ne accorgevo solo in un secondo momento, la giacca strappata. Una macchia di sangue secco sul pavimento. Doveva essersi ferito alla schiena. Non parlava. Il suo ampio sorriso mi aveva dato il sorpreso benvenuto.
Sapevo che non avrei avuto nulla di sensato da dire. Sapevo che lui non mi avvrebbe detto nulla. Non subito, almeno. Mi stesi con lui. Se un ciocco di legno poteva diventare un bambino in carne e ossa, beh, era mia cura aiutare Gregor a tornare nuovamente uomo. Siamo rimasti lì, stesi. Un vassoio con avanzi di cibo era vicino alla porta serrata. Uno spiffero d’aria, da sotto la porta, giocava con la polvere. Oh, Gregor, amico. Dopo due ore mi alzavo per andare, Il lavoro, giustificavo il commiato. La mia famiglia, dicevo mentre uscivo dalla finestra. Lasciala accostata. Tornerò domani.
E con il cuore in gola, il giorno dopo, allungavo la mano verso la finestra che sembrava chiusa e che, invece, era aperta. Entravo nuovamente nella tana che sapeva di chiuso. Gregor ancora non poteva, ma forse voleva uscire. Non poteva parlare, ma, dalla luce nei suoi occhi, si vedeva che aveva qualcosa da dire, forse un’ignoranza profonda da confessare.
Disse la prima parola dopo tre giorni, mentre medicavo la ferita che aveva sulla schiena. Non era grave, ma poteva diventarlo se non fosse stata subito pulita, disinfettata e fasciata. Mi domandavo come potessero aver lasciato correre a quel modo non tanto il padre, sapevo di che pasta fosse fatto, quanto la madre, le sorelle. Ed era come se mi leggesse nel pensiero, perché con un filo di voce m’aveva detto che non aveva lasciato a nessuno, in quei giorni, il permesso di avvicinarsi. Senza rispondere, avevo finito di fasciare il fianco sinistro. Aveva ripreso a parlare dopo qualche minuto, mentre docilmente si lasciava medicare un piede, lì dove le dita sbocciavano da un mocassino che non sapevo come avesse potuto fracassare a quel modo. Sentiva una pesantezza mai sentita prima. Quella pesantezza franava sul corpo, le braccia, le gambe, la schiena. Non poteva far altro che rimanersene steso e dormire e nulla più. Era stanco di viaggiare, di fare ogni giorno avanti e indietro in treno, di mangiar male, di non avere nessuna vera amicizia. E un dolore m’aveva preso allo stomaco, perché non s’era curato di far eccezione per me.
Sapevo del suo senso del dovere e spesso, in passato, nelle rare pause e occasioni d’incontro che ci concedeva l’estenuante lavoro, gli avevo fatto notare che non poteva prendere su di sé tutto il peso dei genitori e delle sorelle. Mi ero permesso di dirgli, una volta, che forse tutta la stanchezza del padre poggiava sulla sua instancabilità. Gregor si era limitato a guardarmi senza rispondere, continuando a scrivere sul suo taccuino di lavoro, ma cambiando il passo del tratto – e per un attimo avevo pensato che avesse preso nota del mio pensiero. Ma solo per un attimo, perché ho sempre pensato a Gregor come a un giovane assolutamente brillante e me come incapace di poter dire qualcosa che lo sorprendesse.
Era dimagrito. Il vassoio era sempre vicino alla porta chiusa. Gregor seguiva i miei occhi. Sorrideva debolmente, mentre io gli avvicinavo il pane o la frutta o, come accadde una volta soltanto, quando avevo tirato fuori dalla mia borsa da viaggio un involto con le uova fritte che tanto amava. Mi affannavo, ma non di quel cibo aveva bisogno, ma di ben altro nutrimento. Anche quel pomeriggio aveva parlato, pregandomi di non sprecare quel cibo, invitandomi a mangiarlo per me e per lui e quando io mi ero rifiutato, allora Gregor aveva strappato un pezzo di frittata direttamente con le dita e aprendo una fessura fra le labbra aveva mangiato. Era il nostro pranzo. Ero felice. Forse anche lui lo era stato. Non mi aveva più guardato negli occhi fino a che non me ne ero andato. Ne sono certo, era stato preso dallo spavento. Aveva compreso di essere ancora vivo.
L’ultima volta che ci siamo visti era un pomeriggio splendido e assolato. Da una settimana ormai andavo ad incontrarlo ogni giorno. Avevo lavorato splendidamente e, in una stagione non proprio adatta, ero riuscito a chiudere degli importanti affari che mi avevano assicurato, come premio, una gratifica in denaro e una settimana di pausa. Era stata fortuna, lo ammetto. Dopo giorni di pioggia finalmente il sole splendeva, ma, inaspettatamente, Gregor era nuovamente steso sul pavimento, chiuso in un ostinato silenzio. Avevo preso da mangiare in uno dei suoi ristoranti preferiti. Un piatto unico, vegetariano. Non c’era alcuna intenzione particolare che andasse oltre l’amicizia che a lui mi legava, ma lui mi aveva guardato come se avessi voluto rispondere ad una sua muta domanda, come se gli avessi letto nel pensiero, come volessi spingerlo a qualcosa. Aveva rotto quel doloroso silenzio con una sola parola, Dora.
Ah, Dora. Era un anno esatto che Gregor non pronunciava il suo nome, almeno con me presente. Avevano dei progetti, loro due. Mi aveva confessato, un giorno, che pensavano di partire, di andare lontano, di lasciare tutto e tutti. In realtà quel progetto era stato più che accennato. Dora aveva le idee chiare e i suoi occhi splendevano, mentre parlava. Sarebbero andati a vivere lontani dalle rispettive famiglie e avrebbero aperto un’attivià. Gregor la ascoltava, sorridente e silenziioso. Mi pareva degno di lui, un passo del genere. Coerente col suo animo e il suo intelletto, era giusto partire, più che ammuffire come commesso viaggiatore che si alzava il mattino alle cinque per passare interminabili giornate in affari di poco conto prima di ritornare a casa, nella sua stanzetta angusta. Ricordo bene quel giorno, la voce di Dora, tremante per l’emozione. Mangiavamo cavoli e uova fritte, bevendo birra. Ricordo ancora il profilo di Gregor, il suo naso affilato puntato oltre la grande vetrata del piccolo ristorante dove alle volte ci davamo appuntamento. La cravatta scura lievemente allentata, i capelli tirati a lucido dietro le orecchie sporgenti. Gli avevo chiesto se avesse qualcosa da dire e solo allora aveva detto della sua famiglia, del timore per come avrebbero accolto il suo progetto. Dora aveva sbuffato, scurendosi in volto solo per un istante, prima di tornare sorridente. E io con lei, mi ero limitato a rispondergli che in qualche modo se la sarebbero cavata, quindi avevo attaccato il mio piatto. Non avevo compreso la serietà del suo dubbio, ma soprattutto Dora non lo aveva compreso. Gregor aveva poi fatto un passo indietro. Il dovere. Il lavoro. I vecchi genitori.
E ora Gregor mi chiedeva di lei che non aveva compreso, né accettao il suo passo indietro, rompendo il fidanzamento. Dora era per me una sorella, io per lei un fratello. Uniti nella comune venerazione per Gregor. Per rispetto a lui, che era caduto in uno stato di prostrazione profondissima, non l’avevo più nominata, né cercato di incontrarla. L’improvviso e rocambolesco trasferimento mio e della mia famiglia, mi aveva aiutato in questo quel proposito, ma proprio il giorno prima l’avevo incontrata nel bel mezzo del mercato, nei pressi della stazione. Non avevo detto nulla a Gregor perché mi sembrava stesse lentamente riprendendosi e non volevo fiaccarlo con un ricordo per lui tanto doloroso. Ma adesso che mi chiedeva di lei, per l’amicizia che ci legava, non potevo mentire. Non c’era molto da dire, del resto. Dora era in compagnia della sorella e della domestica. Sorrideva e sembrava spensierata anche se lievemente cambiata dall’ultima volta che l’avevo vista. Nel vedermi aveva represso l’impulso di fuggire, ma per rispetto si era fermata per parlarmi. Non avevamo scambiato più di una manciata di parole che aveva iniziato a piangere a dirotto, affondando il viso nel petto magro e severo della sorella maggiore. In preda al panico mi ero congedato balbettando non ricordo cosa, allontanandomi più in fretta che potevo, senza voltarmi.
Solo in quel momento Gregor aveva staccato lo sguardo dal soffitto e i suoi occhi grigi e splendidi si erano inchiodati nei miei, alla ricerca di una parola che non potevo dire e che lui non poteva chiedere. Ma Gregor conosceva l’animo umano. Sapeva leggere, in tutti i sensi. Sapeva quello che pensavo e che sempre avevo pensato. Di lui, di Dora. Della loro vita.
Il giorno successivo mi ero recato da lui in ritardo rispetto al solito orario per certe questioni legate alla salute di mia madre. Era il mio ultimo giorno di premio, quindi gli avrei dovuto dire che le mie visite, da quel giorno, sarebbero state meno frequenti. Ero preoccupato. Distrattamente percorrevo il grande viale affollato e solo quando ero a poche decine di passi dalla finestra da cui ogni giorno mi infilavo nella sa stanza senza pudore, mi ero accorto che tutte le porte e le finestre della casa erano spalancate e che il signor Samsa e Rita, sorella di Gregor, erano sulla strada.
Questa volta mi avevano accolto senza respingermi. Silenziosi e cordiali. Evidentemente confusi per un qualche fatto per cui non avevano spiegazione. Avevo chiesto di Gregor e, per tutta risposta, il padre mi consegnava una lettera che teneva nella tasca della giacca. Non dirò qui quello che Gregor aveva scritto. È la cosa più cara che ho al mondo e non posso condividerla con nessuno per paura che svanisca. Solo questo posso rivelare. Mi aveva aspettato fino a che era stato possibile, ma poi era dovuto andare.
Il signor Samsa mi aveva invitato ad entrare in casa per offrirmi una semplice colazione. Il padre di Gregor aveva a tutti costi voluto farmi accomodare sulla vecchia poltrona di cui era geloso, quindi erano tutti spariti in cucina e così io, rimasto solo, mi sono intrufolato nella stanza del mio amico. Era gonfia di luce e tutto era in perfetto ordine. Senza che me ne fossi accorto Rita era alle mie spalle. Era stato Gregor a sistemare e a pulire tutto, prima di raccogliere poche cose in una valigia e uscire dalla finestra. Anche per loro c’era stata solo una lettera di addio.
Lievemente commossa Rita era andata verso la finestra per sistemare le tende piegate dal vento. Bagnata dal sole e nelle vesti leggere per la prima volta vedevo una donna e in quella donna il riflesso del mio amato amico. Rispondevo di sì, mentre mi chiedeva se sarei tornato a trovarli anche se il Gregor era partito. Sì, sarei tornato. Da lei traspariva una bellezza nuova, mentre mi chiedeva se sapessi dove il fratello fosse andato. Non lo sapevo e, confessavo, non era importante saperlo. Ero ammaliato da quella figura fatta di movimenti leggeri e di lunghe gambe che, al pari dei suoi seni, potevo solo intuire. Annuiva, sollevata dalle mie parole. Sembrava finalmente libera, sollevata dal peso di un fratello enorme, gigantesco e a tratti incomprensibile, capace di gettare un’ombra, senza volerlo, persino sulle persone che amava. Avremo sentito parlare di lui, le avevo detto. Non sapevo come, ma sarebbe accaduto. Rita sorrideva e mi invitava a tornare in sala da pranzo, dove i suoi genitori già ci aspettavamo. Lasciavo così quella stanza in cui non sono più tornato. Gregor Samsa era vivo, libero anche lui, nuovamente umano, non più bestia. Non l’ho più incontrato, né ho più avuto sue notizie, da allora. Ma da quanto mi ha scritto, so che è vivo e, forse, persino felice.
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