di Enrico Pompeo
Titolo: La strada di casa
Autore: Kent Haruf
Editore: NN Editore
Pagine: 194
Traduzione di: Fabio Cremonesi
Ci sono scrittori che ti colpiscono, non c’niente da fare. Che quando li scopri, ti ci affezioni e vuoi leggere tutto di loro. In questi ultimi quattro anni ne ho trovati qualcuno e Haruf è tra questi. Perché scrivere bene è tremendamente difficile e lui sembra riuscirci con naturalezza, con semplicità. Questa è la sua forza, apparire quasi distaccato, come un osservatore esterno e tirarti dentro il suo mondo, senza che tu te ne accorga. Haruf riesce in uno dei segreti della narrazione, quello di raccontare quello che succede con una pulizia, una chiarezza che ogni gesto, azione risulta l’unica possibile, autentica e le emozioni, i sentimenti di ogni personaggio sono dentro quello che avviene e non c’è bisogno di descriverli. Perché sono già in quello che fanno.
Non esiste ridondanza nelle sue storie: tutto è essenziale, va dritto al sodo. È come se il suo sguardo fosse capace di soffermarsi sul mondo un po’ di più del nostro, di raggiungere una profondità che noi, da lettori, non possediamo e ci mostra la sua realtà come se fosse quella in cui viviamo. Anche se non è così.
Haruf ha scritto sei libri ambientati a Holt, immaginaria città del Colorado, tre raccolti nella Trilogia della Pianura, gli altri autonomi. Parla di un microcosmo, per riferirsi al macrocosmo. Ogni carattere è se stesso e il simbolo universale. Detta così non c’è niente di nuovo, ma è come lo fa che ti inchioda. Io li ho letti tutti, nemmeno in ordine, ma non importa. Sono spettacolari e bisogna ringraziare NN per averlo pubblicato in Italia.
A proposito, segnatevi questa casa editrice: semplicemente meravigliosa. A parte la grafica delle copertine, che vince, sceglie della roba straordinaria, sia dall’estero che italiana.
E Haruf è stato il loro punto di svolta. Imprescindibile.
Di tutta la sua produzione, questo è quello che mi è rimasto più impresso: parla del ritorno a Holt di un criminale, Jack Burdette, che si fa vivo dopo otto anni e si piazza, sereno e rilassato, con la sua macchinona rossa fiammante nella via principale. La comunità vuole riscattarsi dall’antico sgarbo subìto e reclama una punizione. Da qui parte il racconto di questo personaggio, fatto da un suo vecchio amico, che lo conosce bene bene.
Attraverso questa vicenda, Haruf pone degli interrogativi profondi: qual è il limite tra giusto e sbagliato, tra vendetta e giustizia? Quanto rimane addosso a chi rimane di chi se n’è andato? Come si fa a non essere accomunati alla “mostruosità” di un altro, anche se non abbiamo fatto niente se non sposarlo, per esempio. E Come sempre non ci sono risposte, solo spunti, suggestioni, indicazioni.
Sta a ognuno di noi trovare il senso, il significato, anche soffrendo: la scena in cui la moglie di Burdette, oppressa dal clima di odio che la circonda, offre una parte di se stessa come sacrificio per rimettere in pari la bilancia, è straziante e una delle più forti ed emozionanti che ho trovato in un libro e, diciamoci la verità, un po’ ne ho letti.
E poi il finale! Strepitoso. Rispetto agli altri cinque, qui non c’una chiusa vera e propria. C’è una sorta di apertura, di sospensione verso il futuro, di sguardo gettato oltre le cose, nello spazio dell’incerto, del possibile. Un colpo di genio risolto in due, forse una pagina. Tac, taglio secco e via, con un infinito davanti.
Questo è un vero gigante della Scrittura. Io sono contento di essere stato a Holt. Davvero. Perché non vieni anche tu a farci un giro? Secondo me, non te ne pentirai. Buon viaggio!
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