di Caterina Corucci
Maschere dai nasi adunchi e dalle sopracciglia aggrottate, spaventose, nere come la pece o lucide, marroni calde, come di terracotta. Punteruoli, scalpelli e pinze, odore di roba che nasce.
Sono passati quasi due mesi da quando Giovanni Balzaretti mi aprì il suo laboratorio. Mascheraio, attore formatosi alla Scuola di Teatro di Bologna, ha fondato il Teatro Agricolo nel ‘93, è maestro di narrazione orale e uno degli ultimi contastorie “vecchio stile” che siano rimasti. Ma se gli chiedi di definirsi ti risponde che è un artigiano. Che poi lavori il cuoio o le parole poco importa, lui plasma la realtà.
Allora non potevo immaginare quanto oggi mi avrebbe ricordato altri contastorie, precisamente quelli dell’“onesta brigata” del Decameron. Quelli che si ritirarono nelle campagne per fuggire alla peste che imperversava a Firenze nel 1348 – come noi oggi ci siamo ritirati nelle case per il coronavirus – e che per distarsi si raccontavano novelle. Giovanni Boccaccio (toh, pure le stesse iniziali) quelle novelle non le fece leggere, né scrivere, a Panfilo, Filomena e compagnia, ma gliele fece raccontare; altro non erano che narratori orali.
È proprio di questo che abbiamo parlato quel giorno.
– Giovanni, cos’è la narrazione orale?
– Non è prosa. È commedia o è tragedia; ebbe inizio nella notte dei tempi, con la scoperta del fuoco. Prima eravamo troppo occupati a trovarci un riparo sicuro dai grandi predatori. Poi, con la scoperta del fuoco, ma soprattutto quando abbiamo imparato a governarlo, ci siamo potuti sedere intorno al falò nel cerchio primario, e al sicuro dalle belve feroci abbiamo guadagnato il tempo libero. Si abbrustoliva la carne sul bastoncino e alla luce teatrale delle fiamme, usando anche la mimica facciale, abbiamo cominciato in qualche modo a raccontare storie.
La narrazione orale va molto per gradi e per immagini, prima nelle storie viene messa in campo la normalità, poi quando le difficoltà aumentano e i pompieri e la polizia non bastano, allora il protagonista diventa un po’ un super eroe. Un po’ come gli “ex voto”, hai presente?
– Sì, li ho presenti i quadretti “per grazia ricevuta”.
– Ecco, quelli sono perfetti per una narrazione orale, ci sono le cinque W: when, what, where who, why. C’è la data, c’è la barca con il marinaio che sta per naufragare, c’è il mare, c’è la tempesta e, siccome per salvarci non basta il capitano o il dottore, ci vuole il supereroe, che nei quadretti ex voto è la Madonna, o Sant’Antonio. Sono un perfetto fumetto che fa da scheletro narrativo.
Le parole di Giovanni mi portano all’istante nella galleria museo del Santuario, ricordo l’angoscia morbosa e nonna che mi spingeva avanti, una domenica al mese, fra immagini dolenti e vestitini insanguinati. Ricordo le medagliette che fermarono il proiettile, il pugnale che mancò il cuore per un soffio, le immagini di bambini schiacciati dalle ruote dei carri e, sotto, le calligrafie da anziana maestra, perfette e terribili; mi chiedo se sarei riuscita ad andare a caccia di storie, in quei corridoi infiniti.
– Parlami del narratore orale, chi è?
– È qualcuno molto simile al master di un gioco di ruolo: pone i problemi, lo scontro, complica le cose per arrivare al finale. Ma è il pubblico che lo guida e lui non ha copione, è un servitore. È più un teatro di ascolto che di parola. Se io racconto una cosa e vedo che ti annoi, se quel pezzo per te non funziona, nonostante io sia innamorato di quel pezzo dico l’essenziale e poi taglio. Se invece ti piace, io decoro, “sbrodolo”. C’è uno scheletro drammaturgico, ma è molta improvvisazione.
Poi ci sono i narratori inconsapevoli: la nonna che racconta la fiaba mentre rammenda i calzini, il padre che assiste al parto della moglie e lo racconta ai parenti.
Anche fuori dalle scene ci sono la tragedia e la commedia: il testimone di un incidente, la donnina che ha visto e racconta. Oppure, nel gruppo di amici che vanno in vacanza c’è chi racconta la cosa buffa, “dai, raccontalo tu di quella volta che…”.
Nei gruppi si autodefiniscono i ruoli, De Andrè diceva che per ogni matto c’è un villaggio. Ecco, il matto del paese spesso era come il giullare di corte, che gli pagavi un bicchiere di vino e ti facevi una risata con quello che raccontava.
– Come è cambiata la narrazione nel tempo?
– Prima dell’alfabetizzazione era così – (Balzaretti si predispone, sgrana gli occhi e si acquatta un poco, è già entrato nella parte): – “Tanto tempo fa, son partito da dove tramonta il sole, ho camminato tre giorni finché ho trovato un fiume. Ho attraversato il fiume, mi son tenuto il fiume a sinistra finché ho trovato una, due, tre colline per arrivare dove c’è un vulcano e poi un lago; lì ho preso un bambù, ci ho messo dentro il muschio, ci ho soffiato per fare il fuoco e poi sono tornato”. Il racconto diventa un’avventura: quando morirò, un ragazzo che ha ascoltato la mia avventura la farà diventare una fiaba, qualcuno gli dirà: tu c’eri quando Giovanni ha narrato la sua storia, raccontala. Lui non può cambiare la mappa del racconto ma non c’è nessun copione scritto, allora se ha fantasia può mettere i coccodrilli nel fiume, può mettere i lampi sul vulcano. Poi la racconta un altro che l’ha sentita da lui e mi fa diventare coraggioso: nel racconto “tramandato” io non avevo paura dei coccodrilli, anzi me li son mangiati. Dopo il terzo passaggio di racconti, terza generazione, diventa: “c’era una volta, tanto tempo fa, uno dei nostri, bellissimo, fortissimo…” Dopo quattro o cinque generazioni sono diventato Prometeo, un semidio. Di racconto in racconto la storia si arricchisce.
Con l’alfabetizzazione invece si hanno i copioni, i testi teatrali e ci si attiene a quelli. Machiavelli scrive per la corte. I potenti sfoggiano gli artisti che scrivevano per loro, poeti di corte, scrittori.
Oggi ci sono vari tipi di narratori orali: le influencer per esempio, i blogger. Non devi avere grandi doti, devi convincere a parole su argomenti mirati.
Ma i narratori orali sono ovunque: un bambino nel più triste dei cortili di cemento come si diverte? Fa Maradona. Se la racconta, senza avere fatto un giorno di teatro fa: il protagonista che palleggia e tira i calci al pallone; il drammaturgo che decide l’azione; i coprotagonisti cioè gli avversari che anche se non esistono lui li dribbla lo stesso; fa l’ultimo avversario che è il portiere e fa l’impresa eroica, il tiro incredibile. A un certo punto fa anche le comparse: tutto lo stadio che esulta al suo gol! Non ha fatto un giorno di teatro ma è il demiurgo, fa tutto, anche il telecronista che racconta l’azione mentre si svolge.
– E la narrazione orale a teatro?
– Quando ho fondato il Teatro Agricolo, con Ascanio Celestini abbiamo deciso di fare narrazione popolare, lì abbiamo lavorato con il tabellone illustrato, quello a quadri. Il tabellone veniva già usato a suo tempo nei paesi. Il contastorie lo sistemava nelle piazze dal pomeriggio, la gente lo poteva vedere per tutta la giornata, ci girava intorno, guardava i disegni, si incuriosiva. E la sera tornava sul posto per ascoltare la storia. Lavorando con il tabellone ho capito che anche per le scuole è la cosa migliore da utilizzare, senza portarsi dietro tanta attrezzatura.
– Come è fatto un tabellone?
– Vieni.
Balzaretti mi fa cenno di seguirlo. Usciamo dalla stanza, passiamo attraverso un salotto e un salottino, poi un atrio e un corridoio. Si ferma un attimo per assicurarsi che gli stia dietro, sorride sornione e prosegue. Entriamo in una specie di magazzino e dopo in un locale pieno di cose strane e marroni. Il banco da lavoro, attrezzi e strumenti vari, una grande valigia, maschere pergamene, ritagli di cuoio. Al muro due grandi tabelloni. Uno in particolare mi colpisce per i colori.
– Questa è una filastrocca. I ragazzi la imparano subito, l’ascoltano una volta e seguendo i disegni, non sbagliano più perché seguono il ritmo. Mettere in ritmo: suonare bene e cadere nel piacevole. Fare una filastrocca vuol dire fare un incanto: in-canto, non in-prosa. Quando io metto un racconto in filastrocca, metto lì quella parola e non potrà starcene un’altra, solo quella, con quel battito.
Mi racconta la filastrocca, anzi me la recita con tutto il corpo, uno spettacolo solo per me, e mi sorprendo a dondolare seguendo il suo ritmo.
Dopo guardo il secondo tabellone: colline verdi, una cicogna bianca, soldati, la morte, la vita.
– Lo sai perché si dice che i bambini li porta la cicogna? Questa non è una filastrocca, è una storia. Se vuoi te la racconto.
E in breve si fa buio.
Avercelo in questi giorni di quarantena, il Balzaretti. Invece ho Audible e per carità, meno male che c’è. Però un contastorie, è tutta un’altra storia.
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