Introduzione di Ivan Nannini
Stasera ad FN314 non si muove una foglia. Solo un signore anziano si aggira dondolando per le viuzze del paese. È Nello. Mette un piede davanti l’altro distrattamente, la sua testa è altrove, i suoi pensieri si perdono tra la spuma di mare e l’odore di salsedine della sua giovinezza. Volano leggeri addentrandosi nei bei momenti passati con la sua Francesca. Poi la sua mente si fa scura, si adombra come la strada che percorre con il passare dei minuti. La sera, la sua Francesca, il suo dolore. Lo vedete? Adesso si è fermato, state nascosti ad osservare. Spesso passa il tempo con quella bambina, sembra che siano soli al mondo in quei momenti, racchiusi in una strana bolla dove nessuno può entrare. Cosa si dicono? Questo volete sapere? Non ne ho idea… mi dispiace. Non vi resta che leggere la storia. Nello sta per raccontarvela. Un racconto fatto di nostalgia, dubbi e speranze.
Buona lettura con il dodicesimo episodio della serie, rappresentato in copertina da un disegno di Elena Liverani.
EPISODIO DODICI: IL VECCHIO E LA BAMBINA
di Luigi Pratesi
(Nello)
In questa casa c’è poco di me, ma c’è tutta la mia Francesca.
La presina a forma di mela che comprammo quel giorno a OP215, i cuscini del divano, quelli arancioni a fioricini, le tazzine esposte nella vetrinetta in salotto. L’argenteria – rimasuglio del corredo di nozze – e quel vaso strano, forse orientale, regalatole dalla zia Geltrude. L’abatjour con le perline bianche, quella nel comodino accanto al suo lato del letto. Gliela regalai per il decimo anniversario di matrimonio. Insistette tanto per averla, a me sembrava ridicola. La scopa di saggina, nella rimessa, con il manico graffiato e una macchia verde a forma di farfalla proprio in punta. L’acchiappasogni in veranda, quello con la ragnatela nera, concentrica e tremolante, quello con le piume di pappagallo, azzurre come erano i suoi occhi.
Che poi vai a sapere di quale animale sono davvero. Mica me ne intendo di uccelli. Per scherzare, le dicevo sempre che erano piume di fagiano dipinte di azzurro. Lei scuoteva la testa e lasciava perdere.
Sì, qui tutto mi parla di lei. Ed è normale, perdinci. Questa è casa sua. La casa dove è nata e cresciuta. Ogni mattina, quando mi alzo, scendo le scale e passo davanti all’ingresso. Lei è anche lì. La vedo sorridente, in bianco e nero, mentre indossa il tutù e cerca di fare le piroette. Avrà avuto otto anni quando le hanno scattato quella foto. Come rideva. Come solo i bambini sanno fare.
Maledetta sia questa casa. Per anni ci siamo venuti in processione non appena potevamo. I suoi genitori erano ancora vivi e io, quando riuscivo, cercavo di ritagliarmi un paio di giorni per assecondarla. Se il mare lo permetteva, certo. Mi alzavo che la luna non era ancora stanca, portavo la mia bagnarola a largo e pescavo fino all’alba. Poi dritto al mercato, per vendere il pesce a Gino L’Aguzzo, e giù via di corsa dalla mia Francesca, che non voleva fare tardi. Arrivavamo qua per pranzo, a volte anche prima.
Da KK013 a FN314, con il suo vecchio maggiolone, ci volevano appena due ore. Avevo le mani che puzzavano di pesce e Francesca non voleva che i suoi lo sentissero. Non voleva che facessi brutta figura. Ma mica le riusciva. Portava sempre dietro uno spicchio di limone e mi costringeva a sfregarmelo sulle mani. Se ci ripenso adesso mi viene da ridere.
KK013, o Casaldimare come si chiamava quando ero piccolo. Quella è casa mia. A volte mi viene voglia di prendere i miei coccini e di tornarci. In silenzio, come me ne sono andato dieci anni fa o giù di lì. Ma poi penso che sono troppo vecchio per cambiare ancora. Forse ho solo paura che gli amici non mi riconoscano più. O forse che abbiano seguito l’esempio della mia Francesca e non ci sia più nessuno ad aspettarmi.
Ogni tanto sento Gino, e Franco, sì, sento anche lui. Ma di rado. Sono fatto così e non c’è tramontana capace di farmi cambiare rotta. Quando mi metto in testa qualcosa tengo la barra del timone dritta finché non si spezza. Lo devo a Francesca, mi ripeto. Sì, è proprio vero, glielo devo. E lo devo anche a me.
Eccola la foto che cercavo. Quella che scattai il giorno della prima tempesta di rane. Lo ricordo come fosse questa mattina. Faceva freddo ed eravamo qui per caso. Io avevo un polso rotto e non potevo uscire in barca, Francesca insistette per passare qualche giorno nella vecchia casa dei suoi. Voleva stare un po’ con la sua amica Renata. E così venimmo qua. Trascorsi i primi due giorni a tagliare l’erba, rimettere in piedi il muricciolo di cinta e diragnare tutte le stanze.
Avrei fatto meglio ad andare per mare.
Nel primo pomeriggio costrinsi Francesca ad andare in paese, anche se Renata e quel matto di suo marito Pietro erano occupati, a far cosa non lo scoprirò mai. Secondo me l’arpia voleva tenermi lontano da casa sua. Invitava Francesca solo quando sapeva che io avevo da fare. Proprio come mio suocero. Che possano incagliarsi entrambi negli scogli con i loro pregiudizi borghesi! Beh, solo lei ormai. Mio suocero è passato al Creatore da tempo. Se mai aveva dei peccati da espiare ormai è troppo tardi.
Insomma, eravamo in paese. Io non vedevo l’ora che quel pomeriggio passasse e pure quello dopo, così saremmo tornati a casa nostra. Avevo la macchina fotografica perché ogni tanto quando venivo a FN314 fingevo di essere un turista. Per vedere se qualcuno mi prendeva per matto e scuoteva la testa per qualcosa che non fossero le mie mani che odoravano di pesce. Francesca mi odiava così tanto quando lo facevo. Diceva che ero uno stupido. Che la gente scuoteva la testa solo perché io mettevo il broncio e facevo lo scorbutico.
Può darsi. Io non la capisco la gente di campagna. Io capisco solo la spuma del mare, la salsedine e lo sciabordio che ti culla mentre aspetti che il pesce abbocchi all’amo. L’unica cosa che hanno in comune questo posto e Casaldimare è l’umidità. E Francesca, ovviamente. Lei era l’anello di congiunzione di molte cose nella mia vita. Di troppe forse.
Quel pomeriggio andammo a comprare un grembiulino. Ne scelse uno color crema, con ricamate due belle rose blu. Stavamo uscendo dal negozio quando cadde la prima rana davanti a noi. Che Dio mi sia testimone, alzai lo sguardo per vedere chi fosse tanto stupido da lanciarci addosso una rana. “Corpo di mille bombe” inveii, pensando che fosse uno scherzo per prendermi in giro. “Se ti prendo ti sfiletto come un merluzzo, accidenti a te!”
“Che hai da brontolare?” mi rimproverò Francesca schiaffeggiandomi delicatamente l’avambraccio sinistro.
“La rana” le dissi.
Lei mi guardò stupita, pensava che scherzassi. Poi accadde qualcosa di strano, vidi come i contorni delle cose vibrare. Fu un momento. Poi iniziò. Una, due, dieci rane cominciarono a piovere. Poi cento, poi mille, tutto il paese era sommerso da una grandinata di rane.
Intorno a me gente che correva verso i portoni delle case, che urlava, che si accasciava su stessa coprendosi la testa con le mani. Un paio di ragazzi, avranno avuto trent’anni, si sdraiarono in terra e strisciarono sotto una macchina. Un uomo aprì semplicemente l’ombrello.
Francesca mi guardava, poi guardava gli altri e poi ancora me. “Nello, che succede?”
“Davvero non lo so.”
“Come non lo sai. Che guardate tutti?”
“Le rane, tesoro. Che vuoi che guardiamo?”
“Quali rane?”
Per un istante pensai che mi prendesse in giro, stavo per arrabbiarmi quando notai una bambina dall’altra parte della strada. La mamma cercava di trascinarla al riparo, dentro il negozio in cui eravamo noi, ma lei rimaneva immobile.
“È un gioco mamma?”
“Camilla, vieni, forza. Oh mio Dio. Oh mio Dio. Camilla, attenta.”
“Di cosa mamma?”
“Camilla vieni via, ti cadranno in testa. Camilla – oh mio Dio – Camilla!”
Il TUNC, CROCK, TUNC delle rane sull’asfalto, sui cofani delle macchine e sui tetti delle case si stava facendo assordante. Una canzone macabra, agghiacciante. Uno spettacolo che ricorderò finché avrò la forza di tenere gli occhi aperti.
TUNC, CROCK, TUNC. Mi perseguita ancora nei miei incubi.
Fu allora che scattai la foto. La nostra foto. La prova di tutto. Sì perché io ci vedo, ora come allora, una Francesca sbigottita, con un mezzo sorriso incerto, che non sa se aprirsi o se voltare al brutto. Una pioggia scrosciante di rane e acqua, il sangue che scorre a rivoli per la strada. Questo io. Francesca ci ha sempre visto solo se stessa.
Riappoggio la foto sopra il mobile e sfioro con le dita ruvide un leggero strato di polvere. Lì accanto c’è la collanina d’argento di Francesca, quella con il cavalluccio marino che le regalai la prima volta che mi permise di baciarla. Da allora l’ha sempre portato al collo. Almeno fino al giorno in cui non andammo per la prima volta al San Felice.
Un dolore come quello non l’ho più provato. Era un anno dopo la prima tempesta di rane. “Tumore al cervello” disse il medico, come fosse una cosa normale.
“Come dottore?”
“La signora ha un tumore al cervello. Le restano pochi mesi di vita.”
Cinque per la precisione. Ma questo lo scoprii solo più tardi. Quando sentii la sua mano perdere forza e la vidi fuggire per sempre. In quel momento, invece, non sapevo niente. Nemmeno se dovevo credere a quel dottorino impettito che diceva di venire dal Distretto 2.
Io a quel tempo già guidavo la macchina Kapler. Francesca non stava bene da un po’, da quella dannata prima pioggia di rane, suppongo. Voleva stare vicino alle sue amiche, ai suoi affetti. E io stavo invecchiando per andare tutti i gironi per mare, quindi quando mi offrirono il posto non ci pensai due volte.
Anche a KK013 erano cominciate le piogge, nulla era più come prima. Ci sembrò il momento adatto per cambiare. Tutto qua. Così ci trasferimmo a FN314. Dopo quella prima volta ci sono state altre tempeste, anche se rare all’inizio, e Francesca è vissuta ancora per quattordici mesi, sei giorni e nove ore. Ebbene, in questo tempo non hai mai visto una rana. Mai.
Quando ci dissero che aveva un tumore al cervello pensai ‘ecco perché non le vede’, ma mi sbagliavo. La domanda giusta era un’altra.
In quei mesi non avevo la forza per uscire di casa. Lavoro, casa, lavoro. Non volevo perdermi nemmeno un minuto di mia moglie. Non volevo lasciarla andare. Ma come tutte le cose preziose, alla fine, ha lasciato dietro di sé una grande nostalgia, un cuscino vuoto e la parte peggiore della mia anima.
Dopo che ebbi finito le lacrime e le preghiere, la foschia si diradò. Cominciai di nuovo a pensare con lucidità e mi tornò in mente. Come ero stato cieco. Come ero stato stupido.
La bambina. Camilla. Anche lei mi aveva dato l’impressione che quel giorno non avesse visto le rane. Mi informai. Eccome se lo feci. Con la stessa tenacia e ossessione con cui, da piccolo, ripetevo a mio padre che non mi importava un fico secco delle sue zucche, che io volevo solo prendere una canna e andare a pescare con lo zio Michele. Al diavolo i suoi campi e le sue olive.
Così venni a sapere che Camilla non parlava. Da quel dannato giorno, che il fondo del mare se lo inghiotta, si era chiusa in se stessa. Mai più una parola. Con nessuno. Che mi prendesse un accidente, non poteva essere un caso.
Andai sotto la sua scuola, aspettai che fosse l’ora in cui i ragazzini tornano a casa e l’affrontai. “Ehi, tu. Sei Camilla, vero?”
Mi aspettavo quasi che negasse, che tentasse di fuggire, perché era evidente che mi aveva nascosto di proposito il suo segreto per tanto tempo. Lei invece mi guardò e annuì.
“Sei tu Camilla?”
Annuì di nuovo.
“Tu non vedi le rane” l’accusai.
Divenne bianca come la vernice appena passata sui muri. Bianca e un po’ lucida. Ma continuava a fissarmi, senza dare alcun segno di volersene andarsene.
“Tu non vedi le rane” ripetei più titubante. Come se quella tacita ammissione avesse indebolito le mie convinzioni invece di rafforzarle.
Se spostò il peso del corpo o si mosse, lo fece in modo impercettibile, eppure percepii che voleva che continuassi a parlarle. La mia voce si addolcì. “Anche mia moglie non le vedeva, sai. All’inizio ho pensato che fosse matta, ma poi ho deciso di crederle. Francesca non mi aveva mai mentito, non c’era motivo che lo facesse su quello.”
Silenzio.
“Stai male?”
Una smorfia noncurante, come a dire ‘non più di tanto’.
“Non voglio dire ora. Dopo le notti di tempesta, quando piovono le rane” le dissi. “Ti senti mai girare la testa, venire la sensazione di vomito?”
Annuì.
“Lo sapevo, per Zeus! Lo sapevo” l’aggredii senza volerlo, tanta era l’eccitazione. Tutto quello che avevo sospettato si stava rivelando esatto. Sarei stato l’uomo più felice del mondo se quella verità non fosse stata il mio peggior incubo. Invece ero eccitato. Eccitato e terrorizzato.
Camilla piegò la testa verso destra, come misurasse le mie reazioni. Per tutti i cavalloni del mare, quella ragazzina sembrava volesse leggermi i pensieri tanto erano intensi i suoi occhi.
“Anche per mia moglie era così” provai a calmarmi. “Mai viste. E aveva i mal di testa. E vomitava. Poi si è ammalata. Aveva un tumore, è morta qualche mese fa.”
Adesso c’era paura in quel visetto. Vederle aggrottare la fronte e scavare solchi in quella pelle liscia mi fece capire che ero uno stupido. “Ma stai bene, non è vero? Dio, dimmi che stai bene.”
Abbordata da un vecchio che non conosceva e che le raccontava storie di malattia e di morte, corpo di mille bombe, per forza era spaventata.
“Scusami piccolina. Non volevo agitarti. Magari non c’entra nulla. La mia Francesca era vecchia, proprio come me. Tu sei giovane e forte. Però hai i mal di testa e non vedi le rane. Mi sbaglio?”
Lei rimase ancora in piedi, ferma a fissare il mio grosso naso a patata. Annuì.
L’abbracciai. Sì, l’abbracciai e rimanemmo stretti l’uno all’altra per un po’. Che se qualcuno fosse passato di lì ci avrebbe scambiato per nonno e nipote. E in fondo quel giorno un po’ lo siamo diventati. Uniti da un’anomalia. Uniti dalla voglia di scoprire cosa l’ha provocata. Uniti dalla convinzione che l’anomalia non sia la sua, ma la nostra.
Alla fine si staccò e mi indicò con un dito il piccolo autobus azzurro che stava girando la curva nella strada sotto la nostra.
“Certo piccolina, ti accompagno io a casa” le dissi spostandomi appena da permetterle di vedere la macchina Kapler. Se ne fu disgustata, non lo diede a vedere o io non ci feci troppo caso.
Rane che piovono dal cielo, ma per favore. Tutto era chiaro. Per la prima volta era davvero chiaro.
Stacco a fatica gli occhi dalla collanina di Francesca. Oggi ho chiesto a Camilla di trovarci nel nostro solito posto. C’è voluto molto per conquistarsi la sua fiducia, ma ormai non potremmo andare avanti l’uno senza l’altro. Parliamo spesso, noi due. Parliamo quando gli altri non ci vedono. Nascosti, come se facessimo qualcosa di male. Forse per qualcuno è così.
Ho bisogno di dirle cosa ho deciso di fare e che non si torna più indietro. Voglio provarci. Devo provarci. Per Francesca. Per Camilla. Anche per me. Per capire. Per farmene una ragione.
Strofino il cavalluccio, il mio portafortuna. La mia àncora di salvezza. Ciò che non mi hanno ancora portato via di Francesca.
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