di Caterina Corucci
Mi trovo davanti al civico 38 di via Roma, a Livorno, suono il campanello e qualcuno mi apre. La sensazione è insolita perché la casa è quella di Amedeo Modigliani; è una casa museo ma si presenta come una normale abitazione, fuori non ci sono insegne, nessuno sportello biglietteria, se non fosse per la targa posta sopra il portone neanche si noterebbe.
I Modigliani erano una rispettabile famiglia appartenente alla borghesia ebraica, in una Livorno di fine 800, dove convivevano comunità etniche e religiose diverse, grazie alle Leggi Livornine emanate dal Granduca che invitavano mercanti e genti di ogni luogo a trasferirsi lì, dove vigeva la libertà di culto. La casa è situata in una zona fra le più eleganti della città, l’appartamento è al primo piano, rimasto intatto dopo i bombardamenti. Devo salire due sole rampe di scale e lo faccio lentamente, per assaporare l’attesa e prepararmi. Il vano è stretto, i gradini lisci di pietra sono gli stessi che calpestava il piccolo Amedeo tornando da scuola. Va bene, sono pronta.
Non sono qui per conoscere la storia del pittore, per quello basta un libro, o una ricerca su Google; sono qui per respirare la sua aria, affacciarmi alla finestra dove si affacciava lui, immaginarlo portare a casa la pagella, o bisticciare coi fratelli. E sono qui per quelle chicche che, quando si ha la fortuna di imbattersi in una guida appassionata e preparatissima come Gilda, capita di ottenere in dono.
Gilda ci accoglie sulla porta e resto un po’ come sospesa, nel corridoio lungo e stretto; forse è perché sono arrivata qui pedalando, e sono le 11.30 di una mattina di agosto, ma le pareti fresche e i soffitti così alti sembrano offrirmi respiro.
I biglietti li facciamo in cucina sul tavolo dove “Dedo” fu partorito. Il pittore livornese nacque in un momento di difficoltà economica della famiglia; era il 12 luglio 1884, mentre sua madre Eugenia Garsin aveva le doglie, un ufficiale giudiziario si presentò alla porta per pignorare mobili e oggetti. Intorno alla donna furono allora portate tutte le cose di valore trasportabili, perché la legge impediva che venisse sequestrato ciò che si trovava sul letto di una partoriente o vicino a lei. Amedeo venne quindi alla luce fra gioielli e candelabri, cosa che fu vista come di buon auspicio da alcuni, ma non dalla madre, la quale ci lesse il segno che il suo quarto figlio era nato “sotto una cattiva stella”.
Guarda caso siamo in agosto, in questo periodo le stelle cadono, e ridendo per la coincidenza, Gilda ci accompagna in salotto; c’è uno scrittoio che non è quello originale, ma che fa il suo effetto. E c’è la pagella incorniciata e appesa al muro, dalla quale si ricava che il giovane Amedeo era esonerato dalle lezioni di ginnastica, per via della sua salute cagionevole. C’è la promessa di matrimonio fatta a Jeanne Hebuterne, il suo grande amore, promessa mai mantenuta perché i documenti che mancavano arrivarono quando lui era già morto; e c’è una foto di Modigliani quattordicenne insieme a Fattori, con la faccia impertinente di chi sembra consapevole di quella che sarà la sua impronta nel mondo.
Fu in questo salotto che la madre, donna di grande cultura, insegnante di letteratura inglese e francese, dette vita a una scuola privata, con una classe straordinariamente mista, visti i tempi. Era una donna illuminata, che non si oppose quando Amedeo volle lasciare gli studi per dedicarsi totalmente alla pittura, anzi fu lei che convinse Guglielmo Micheli, allievo di Fattori, a prenderlo a bottega. Dedo aveva 14 anni ed era appena guarito dal tifo.
Gilda ci racconta di quanti ammiratori arrivino dall’estero, e di come Modigliani sia molto pop, soprattutto per gli americani; ci racconta di quelli che portano doni per il giorno del compleanno, come quella signora che viene da Mosca e non manca un anniversario. E di una donna innamorata di Amedeo, quasi ossessionata, che messa alle strette dal marito esasperato, dovendo scegliere tra i due ha preferito divorziare dal marito. E’ davvero facile, tuttora, subire il fascino di Amedeo come lo era nel 1906, quando arrivò a Parigi con l’abito nuovo di velluto e un borsalino. Ma soprattutto con quella bella faccia italiana, l’eleganza e una solida cultura. Aveva però anche grossi problemi di salute, cui si sommarono in seguito quelli derivati dall’abuso di alcool e di hashish. Picasso, suo amico e suo antagonista, lo rinominò “Modì”, per l’assonanza con la parola “maudit”, “maledetto”.
Fra un aneddoto e l’altro arriviamo in una stanza dove le riproduzioni dei quadri ci regalano la sua arte, la sua visione dell’uomo, che poi molto spesso era una donna. In ogni caso l’individuo è in primo piano, e niente deve distrarci da questo, non ci sono ambienti a fare sfondo, non ci sono paesaggi e non c’è azione; il soggetto è immobile, sdraiato o seduto. Come scrisse all’amico e mercante d’arte Zborovsky in una lettera del ’19, “l’uomo è un mondo che a volte vale i mondi interi”. Quei volti allungati, inclinati come corolle su steli, quei colli sinuosi che non rinnegano l’arte classica, rivelano tutta la fragilità dell’essere umano. Il senso di malinconia è lo stesso, declinato ora nei tratti della zingara, ora in quelli della sua compagna, o del giovane amico pittore.
E poi gli occhi. Come per i simbolisiti, che Modigliani apprezzava, anche per lui gli occhi sono lo “specchio dell’anima”, rivolti verso l’interno e quindi capaci di renderci l’interiorità. E quando non riusciva a cogliere l’anima, dipingeva occhi senza pupille, vuoti di un azzurro annacquato o pieni di un nero imperscrutabile. I suoi personaggi ci guardano dalle tele, e sentirsi addosso quegli occhi senza sguardo mette quasi in imbarazzo, tanto sono intensi, pozzi misteriosi in cui perdersi.
In un suo appunto del 1909 troviamo scritto “Non cerco il reale né l’irreale, ma l’inconscio, il mistero dell’istintività e della razza”, la razza umana. Non posso non pensare a Freud, a Pirandello e a tutti i ragionamenti e le teorie su quello che è e su quello che appare, che come un fremito scossero e influenzarono l’arte e la cultura del periodo. E se quei colli fossero così lunghi a disegnare la distanza che c’è fra il sentimento e la ragione, fra il corpo e la mente? Un po’ come la giraffa del contemporaneo Stefano Benni, che “ha il cuore lontano dai pensieri. Si è innamorata ieri, e ancora non lo sa.”
Anche per Modì prevale la volontà di rappresentare l’interiorità della persona, più che il suo aspetto esteriore, aspetti che spesso non coincidevano; e a questo proposito Gilda ci fa notare che nel ritratto di Max Jacob il naso è ben definito, deciso, lungo più di quanto non fosse in realtà, simbolo del carattere snob e superbo dell’amico. Sulla parete vicina, c’è l’Amazzone, con quei lineamenti duri, esageratamente appuntiti che ispirano antipatia, quella che doveva arrivare a Modì mentre ritraeva la baronessa De Hasse de Villers, al punto che la signora, quando vide il quadro che pure aveva commissionato, si rifiutò di acquistarlo. E poi ci sono personaggi con volti e corpi resi tondeggianti dall’affetto. I sentimenti andavano dai modelli a lui, per tornare da lui alla tela.
Arriviamo davanti a Nudo Rosso, e qui mi incanto. E’ il secondo quadro più pagato al mondo, centosettanta milioni di dollari, che fu ritirato dalla mostra del 1917 perché ritenuto osceno. La lavorazione delle tinte è materica, il colore è così spesso che sembra scolpito. Modì aveva abbandonato la scultura, che le polveri della pietra gli rovinavano i polmoni, ma non ci rinunciò del tutto: i suoi quadri ne sono la trasposizione, hanno volume, profondità; e quel tratto nero, che contiene il colore, è proprio ciò che gli serviva per definire e possedere le forme.
Infine arriviamo all’ultima stanza, mi soffermo sui pavimenti che sono quelli originali, curiose piastrelle che ingannano l’occhio, sembrano tridimensionali. E sulle persiane di legno di un bel verde luminoso, anche quelle originali.
Il giro è finito, Gilda ha parlato per quasi due ore, ha risposto a tutte le nostre domande entusiasta, trasmettendo emozioni, oltre che informazioni. Anche lei è succube del fascino di Modì, come darle torto. Siamo oltre l’orario di chiusura ma io non ho voglia di andarmene, e nemmeno Gilda sembra avere fretta. Mi offre un bicchier d’acqua in cucina, noto una piccola porta nel sottoscala e lei mi permette di aprirla, c’è un piccolissimo vano ripostiglio, mi immagino Dedo a quattro anni che gioca a nascondino. Poi mi giro verso la portafinestra aperta e chiedo di poter vedere il terrazzo. Sembra non vedesse l’ora di mostrarmelo, anche il giardino, e la chiostra dove Amedeo e i suoi fratelli si svagavano. Adesso è davvero tardi, ma voglio affacciarmi un attimo alla finestra della sala. Nel palazzo di fronte, all’altezza dei miei occhi, una targa: “Qui nacque Piero Ciampi, poeta e cantautore. Livorno 1934-Roma 1980”. Non si sono mai incontrati, Amedeo morì a trentasei anni all’Ospedale della Charité di Parigi, in povertà, il suo fisico già provato dalle polmoniti e dalla tubercolosi si arrese alla meningite tubercolare; solo da quel momento, come in un brutto copione, il valore delle sue opere venne riconosciuto.
Anche Modigliani scrisse poesie, mi dice Gilda, così appena arrivata a casa ho acceso il computer e mi sono messa alla ricerca. Ho trovato questa.
“Ricordo…Rumore…/ Grande Rumore Silenzioso / Nella Mezzanotte dell’anima, / Oh Grido silenzioso! / Estremi, richiami / Melodie / Altissimi verso il sole / Squarci voluttuosi / Ritmi conturbanti / La / Dea / Richiami ai nomadi / A tutti i nomadi lontani / Le chiarine del silenzio / Arca della quiete / Addormentami / Cullami, / Fino alla Novella Aurora”.
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