di Francesco Ricci
Giorgio Caproni (1912-1990) è sempre stato convinto – e lo ha dichiarato apertamente – che la poesia deve parlare di situazioni, eventi, oggetti immediatamente riconoscibili come nostri, vale a dire concreti, quotidiani, comuni. Una persuasione, questa, che è rinvenibile già nelle sedici liriche della prima raccolta Come un’allegoria, uscita nel 1936. Al pari del suo maestro, Umberto Saba, e dei suoi compagni di viaggio, Bertolucci e Penna, esponenti anche loro della cosiddetta “linea antinovecentesca”, Caproni ama soffermarsi sulla realtà di tutti i giorni e, in particolare, sui suoi aspetti più dimessi e prosaici, raffigurati con uno stile nitido, che rinviene i suoi elementi caratteristici nella chiarezza delle immagini e nella musicalità del verso. Accanto alla componente “descrittiva”, originata dalle impressioni sensoriali, importante già nella raccolta d’esordio appare lo spazio accordato anche alla componente “sentimentale” e “meditativa”. Ad esempio, in San Giovambattista le prime tre terzine ospitano la rappresentazione per scorcio di una notte d’estate. La vista (“chiari fuochi”), l’olfatto (“la notte odora / acre, di sugheri arsi / e di fumo”), l’udito (“selvagge grida”), di nuovo la vista e l’udito (“le chiare donne sbracciate”, “ad ogni scoppio di razzo”), sollecitati e catturati dalla realtà circostante, originano versi nei quali tutto appare luce, chiarore, gioia. Ma nell’ultima quartina interviene un mutamento, sia di ordine temporale che di natura emotiva. La notte, infatti, si è ormai fatta notte fonda e fra poco, complice anche il levarsi del vento, i fuochi si faranno cenere, le canzoni lasceranno posto al silenzio. In parallelo, la spensierata allegria che rischiarava le prime tre terzine viene sostituita da una sottile malinconia: non si spegne l’eco suscitata nel poeta da una ragazza – intravista più che vista –, la quale, passandogli accanto di corsa, gli ha rubato il cuore, gli ha confuso i sensi. D’altra parte l’estate conosce anche di questi momenti, nei quali amori passeggeri e inattesi ci sorprendono, ci catturano, ci tengono desti facendoci sognare.
Tersa per chiari fuochi
festosi, la notte odora
acre, di sugheri arsi
e di fumo.
Intorno a un falò d’estate
imita selvagge grida
uno stuolo di bambini.
S’illuminano come esclamate,
ad ogni scoppio di razzo,
le chiare donne sbracciate
ai balconi.
(Voci e canzoni cancella
la brezza: fra poco il fuoco
si spenge. Ma io sento ancora
fresco sulla mia pelle il vento
d’una fanciulla passatami a fianco
di corsa).
(Giorgio Caproni, San Giovambattista)
(7 agosto 2019)
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