di Francesco Ricci
Quando nel 1921 Giuseppe Ungaretti si trasferì con la famiglia a Roma, l’incontro con la città eterna e con il paesaggio laziale costituì per lui a tutti gli effetti – come per Bertolucci, Caproni, Gadda, Pasolini – un nuovo inizio. Il mutamento non interessò semplicemente il piano dello stile, conducendo dai versicoli “scandalosamente brevi” dell’Allegria al recupero dei versi della tradizione italiana (in primis l’endecasillabo) attuato nel Sentimento del Tempo, dal lessico scabro ed essenziale della prima raccolta a quello colto e prezioso della seconda. Alla nuova maniera poetica, infatti, si accompagnò anche un nuovo pensiero, che rinveniva il proprio fondamento nella ritrovata fede in Dio (con tutto ciò che ne consegue in termini di concezione della Storia e della natura dell’uomo), e che fu favorito anche dall’incontro col barocco, architettonico e letterario.
Fin da subito alla sensibilità del poeta esso apparve non solo definibile dalla dialettica vuoto / pieno – orrore del vuoto, gusto del pieno –, ma anche riconducibile figurativamente alla stagione estiva, dal momento che, come osservò lo stesso Ungaretti, “l’estate fa come il barocco: sbriciola e ricostruisce”. È anche per questo motivo che nel Sentimento del Tempo l’estate è una presenza tematica – oltre che atmosferica – tutt’altro che trascurabile. Si pensi, a titolo d’esempio, alla lirica Di luglio, scritta nel 1931. Anziché concentrarsi su una precisa ora del giorno, come faceva d’Annunzio in Stabat nuda aestas o Montale in Gloria del disteso mezzogiorno, Ungaretti descrive l’azione distruttiva dell’estate senza alcuna ulteriore distinzione. La subordinata temporale iniziale definisce l’avvio di un processo destinato a trascinarsi per settimane e rivolto a prosciugare, a seccare, a bruciare tutto ciò che incontra, su cui si riversa (“ci si butta lei”), attraverso un’opera costante e implacabile che trova nel ritmo (concitato) e nella sintassi (paratattica) una perfetta corrispondenza stilistica. Ma resta il sostantivo “rosa”, in posizione forte di verso (“si fa d’un triste colore di rosa”), seguito dal sintagma “bel fogliame” (“il bel fogliame”), a suggerire al lettore che non c’è distruzione che non sia seguita da una ricostruzione, che non c’è morte che non conosca una rinascita: l’immagine dello scheletro, sulla quale si conclude la lirica (“va della terra spogliando lo scheletro”) racconta, dunque, soltanto una parte della verità.
Quando su ci si butta lei,
si fa d’un triste colore di rosa
il bel fogliame.
Strugge forre, beve fiumi,
macina scogli, splende,
è furia che s’ostina, è l’implacabile,
sparge spazio, acceca mete,
è l’estate e nei secoli
con i suoi occhi calcinanti
va della terra spogliando lo scheletro.
(Giuseppe Ungaretti, Di luglio)
(25 luglio 2019)
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