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Emanuela Canepa (L’animale femmina): “Quando scrivo mi sento a casa”

di Simona Pacini

A volte capita di chiudere un libro, dopo averlo letto d’un fiato, e avere immediatamente la voglia di conoscere l’autrice per trovare le risposte alle domande suscitate dal suo lavoro. Recentemente mi è successo con Emanuela Canepa, con L’animale femmina (Einaudi, 2017), sua opera prima e per il momento unica. I motivi della mia curiosità sono diversi. Sicuramente c’entra il libro, con la sua trama e i suoi personaggi, la giovane Rosita e l’anziano avvocato Lepore, che riescono ad avvinghiare il lettore, trascinandolo in un sentimento crescente di affettuosa familiarità. C’entra anche il titolo, L’animale femmina, che suggerisce un punto di osservazione etologico sull’essere umano donna. Senza dubbio c’entra anche la scrittura dell’autrice, pulita e lineare, che riesce però a penetrare profondamente nella psicologia dei personaggi, offrendone un’immagine realistica e complessa. Poi c’entra anche il fatto che alla fine del romanzo, nella pagina dei ringraziamenti, leggo che l’idea è nata tra le mura di una scuola di scrittura, la Palomar di Rovigo. Singolare anche il percorso di questo libro, che si è conquistato la pubblicazione presso una casa editrice come Einaudi, dopo aver vinto il premio Calvino 2017. Le notizie che si trovano in rete su Emanuela Canepa sono veramente poche. Romana, laureata in storia medievale e in psicologia, oggi vive a Padova dove lavora come bibliotecaria all’università. Riesco a contattarla tramite Facebook e a chiederle l’intervista che mi concede, a patto però di farla per iscritto. A niente valgono le mie proposte di colmare la distanza geografica che ci
separa con l’utilizzo di mezzi tecnologici come Skype o il telefono.
“Suppongo che sia anche per questo che ho scelto di diventare una scrittrice – mi spiega -. Perché voglio controllare il processo della parola scritta indipendentemente dal contesto che la veicola, il che significa che non è mai la prima bozza – in questo caso la risposta a caldo – che mi va bene”.

Emanuela Canepa con “Jane Austen” a Bath, nella casa museo della scrittrice

Che cosa rappresenta quindi per te la scrittura?
“Prima di ogni altra cosa è la mia modalità espressiva di base, e lo dico senza alcun intento apologetico. Parlo di un istinto neurobiologico, di cui tu per prima hai fatto esperienza diretta quando mi hai domandato questa intervista a voce e io ti ho chiesto di farla per iscritto. Non è stata una scelta dettata da un timore del confronto, o da una sorta di pudicizia, meno che mai da un’inclinazione a sottrarsi al contatto. Credo di essere una persona estroversa, non ho alcuna difficoltà a parlare a una platea, ho fatto lavori molto diversi ma che quasi sempre implicavano rivolgersi a un pubblico con un microfono in mano, e non soffro di alcun patimento in quel senso. Ma se devo ragionare, se voglio avere la sicurezza di dominare il processo mentale con cui esprimo un pensiero in una modalità minimamente compiuta, devo articolarlo in forma scritta, perché è all’interno di quel processo che l‘idea si sviluppa. Parlo quindi di un rapporto con la scrittura che precede di molto la sua formalizzazione narrativa, che è una diversa applicazione, senz’altro più elaborata. So quel che penso solo quando scrivo. Credo che da questo nasca poi il desiderio di fare anche altro della scrittura, e di raccontare storie. Quando scrivo mi sento a mio agio, mi sento a casa. Flannery O’Connor, alla domanda perché scrive? rispondeva: perché mi viene bene. Io non mi azzarderei a dire le stesse parole – ho difficoltà a valutarmi oggettivamente – però penso a qualcosa di molto simile. Forse non proprio perché mi viene bene, ma senz’altro perché mi
viene naturale.

La vittoria al concorso Calvino, la pubblicazione con Einaudi e il successo riscosso dal tuo libro hanno cambiato la tua vita?
“Devo darti una risposta ambigua. Da una parte è senz’altro così, e anche in modo piuttosto clamoroso. Non avrei mai creduto che la scrittura comportasse obblighi così performativi. Ho passato sei mesi in viaggio, e ancora oggi, a un anno di distanza dall’uscita del libro, mi sposto parecchio e sono coinvolta in attività nuove che si sono generate dalla scrittura.
Dall’altro la scrittura come professione non ti consente di cambiare in modo radicale, nel senso che il ritorno economico di norma non permette di vivere di questo – o comunque certamente non al mio livello, ma conosco molti scrittori, e sono davvero pochi quelli che non hanno bisogno di lavorare. Quindi possiamo dire che la tua vita cambia meno di quello che
vorresti. In compenso aumenta parecchio il carico di lavoro”.


“La donna che stira ossessivamente è mia madre”. La scena iniziale del libro, in cui fai emergere la personalità della donna attraverso i gesti che compie, è molto potente. Nella costruzione dei personaggi hanno un peso gli studi in psicologia o conta la capacità di osservazione tipica di chi decodifica il mondo attraverso la scrittura?
“Gli studi di psicologia sono arrivati piuttosto tardi, e io penserò sempre a me soprattutto come una laureata in Storia, con approcci e metodologie integralmente umanistici. Nell’ottica del romanzo la psicologia, che ho studiato senza eccessivi entusiasmi, mi è servita soprattutto dal punto di vista terminologico. L’approccio di Lepore allo studio delle donne, lo sguardo che posa su di loro e la sua furia tassonomica ricorrono spesso alla terminologia psicodinamica, e in questo senso sono funzionali allo scopo, come ben dici, di dare una particolare coloritura al personaggio. Per la madre di Rosita invece credo di essermi servita soprattutto della mia personale intolleranza verso l’ossessione, che è molto forte. Mi scatenano un’ansia ingestibile le persone che vogliono fare sempre tutto nello stesso modo, ci vedo una vocazione nichilista anche piuttosto trasparente. La vita è entropia per definizione. Vivere sprofondando nel magma liquido dell’esistenza produce caos e disordine. Accanirsi contro le cose che cambiano, e che soggette al disordine e all’usura del tempo, appartiene allo stesso distretto di senso della mummificazione, e mi fa orrore. Ho concentrato tutto questo nello specifico atto della stiratura – che tra tutte le incombenze domestiche è quello che mi risulta più estranea – e l’ho insufflato nella madre di Rosita. Per me avere una madre così sarebbe stato intollerabile. E poiché volevo una madre intollerabile per lei, gliel’ho assegnata”.


C’è una frase nel libro che descrive il percorso di Rosita verso la sua definizione come persona. “Il momento in cui cominci a capire chi sei è lo stesso in cui diventa superfluo spiegarlo a chiunque”. Lei fugge dalle grinfie di una madre ossessiva e finisce a lavorare per un capo tanto carismatico quanto irrisolto, sul piano umano. Le difficoltà della vita ci aiutano a capire chi siamo?
“Posso rispondere solo per me, naturalmente. Mi tengo distantissima dal cliché dello scrittore che traghetta verità universali. Mi sembra di aver già raggiunto un risultato importante se quello che scrivo porta a farsi qualche domanda. E nel mio caso la risposta è positiva. Le difficoltà dicono tutto. Riflettere su di me, quello che sono, quello che voglio, è un’attività che mi ha sempre impegnata parecchio. Per dirla tutta mi sembra una domanda ineludibile, una delle attività che danno senso alla vita. Però poi di fronte alle provocazioni dell’esistenza, specie quelle di natura relazionale, spesso non sono stata all’altezza della persona che credevo di essere, o comunque mi sono sorpresa. Il che mi sembra bello. La vita è fatta di carne e sangue, e la costruzione di sé è un’attività condizionata da variabili che puoi verificare solo alla luce dell’esperienza. La teoria funziona poco e male. Può darti una traccia, e poco altro. La frase che mi citi è stata una di quelle che mi ha guidata, il punto di arrivo della parabola di Rosita. Il giudizio altrui, o almeno quello delle persone emotivamente importanti, è un freno costante quando ti senti sempre inadeguato. Un dissuasore, un giudice su uno scranno, un muro che ti sbarra la via. Il primo segnale che stai facendo qualcosa di buono verso la scoperta della tua verità è quando questo genere di ostacolo si fa poroso, trasparente, e infine invisibile. L’impermeabilità al giudizio degli altri diventa il luogo in cui ogni spiegazione è superflua. Spiego per convincerti, perché ho bisogno della tua validazione. Ma se il mio valore si dà a prescindere, allora del tuo parere non m’importa
più. Che tu comprenda o meno è irrilevante”.

Emanuela Canepa alla libreria Tarantola, Belluno, con la giornalista Michela Canova


Quanto devi alla scuola di scrittura e quanto alla scrittrice che è in te?
“Faccio fatica ad attribuire i meriti nelle giuste proporzioni. La Palomar, la scuola all’interno della quale ho scritto il romanzo, mi ha dato una struttura e una disciplina. Sono una persona molto cerebrale – con mio disappunto, perché non vorrei – e lavorare all’interno di un processo con regole e scadenze per me è l’ideale. Credo di essere distantissima dall’iconcina dello scrittore genio e sregolatezza, una definizione stereotipata che mi è sempre sembrata molto prevedibile. Però non credo che tutto questo sarebbe bastato se non avessi avvertito con molta chiarezza che c’erano delle scadenze – scadenze esistenziali, che prescindevano da tutto – e che sarebbe stata una forma grave di vigliaccheria continuare a rimandare ancora”.


Quando leggeremo un nuovo libro di Emanuela Canepa?
(A proposito, dove va l’accento?)

“Mi fa piacere che tu me lo chieda. Porto uno di quei cognomi che reca in sé il destino della pronuncia errata. È una parola sdrucciola e l’accento cade sulla terzultima sillaba, ma poiché la maggior parte delle parole in italiano sono piane, con l’accento che cade quindi sulla penultima, mi tocca sempre correggere. I liguri sono gli unici che indovinano al primo colpo, perché lì è un cognome frequente, anche se io sono romana. Il mio trisnonno però veniva da Genova. Per rispondere poi alla tua seconda domanda, il nuovo romanzo è calendarizzato per gennaio 2020, e uscirà sempre per Einaudi Stile Libero”.

Emanuela Canepa durante la presentazione del suo libro alla libreria Tarantola di Belluno


Vuoi accennare qualcosa della nuova trama?
“Non riesco mai a parlare di quello che scrivo, è un mio limite. E in ogni caso ho terminato solo la prima bozza. Perfino dal basso della mia modestissima esperienza posso dirti che l’aspetto che un libro ha in prima bozza, e quello che finisce per assumere alla fine del processo editoriale, può essere talmente diverso che parlarne oggi sarebbe davvero fuorviante. Poi c’è senz’altro anche un bel portato di scaramanzia. L’altro ramo della famiglia, non quello genovese, che è il ramo paterno – viene da Napoli. La scaramanzia per me è un’eredità genetica”.

(25 giugno 2019)

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