di Simona Pacini
Si può soffrire per troppa fortuna. Anche se sembra assurdo. Chi non vorrebbe che i propri investimenti, anche quelli sbagliati, fruttassero interessi a tre zeri, che il fisco rimborsasse tasse mai pagate, mentre sul lavoro fioccano promozioni e aumenti mai cercati?
Ma c’è un limite anche al desiderio di esser baciati dalla buona sorte. Perché, come sa bene Kurt O’Reilly, dirigente di un istituto di statistica britannico, che vive seguendo la sacra regola della percentuale, un periodo di tre mesi di fortuna ininterrotta è una circostanza realmente impossibile. Figuriamoci se si manifesta in ogni aspetto della vita: a parte le donne che gli si buttano addosso e tutti quei taxisti che, per un motivo o per l’altro, non vogliono farsi pagare la corsa, ma quando un esame medico rivela che il nostro eroe soffre di una patologia letale, rientrando però in quel 4 per cento di casi destinati a salvarsi, O’Reilly capisce che gli sta succedendo qualcosa di veramente enorme.
L’unica spiegazione sensata che ottiene, grazie all’incontro con due psicologi, il dottor Leone e la dottoressa Dos Santos, gli unici personaggi che riescono a vedere oltre, è che allo stesso tempo ci sia una persona che al contrario stia vivendo il massimo della sfortuna. Una specie di ribaltamento karmico.
O’Reilly (di nome Kurt, come Vonnegut, lo scrittore preferito dall’autore) è il protagonista di Benevolenza cosmica (Adelphi 2019) di Fabio Capà, scrittore esordiente marchigiano.
“Sì, sarei morto, consapevolmente e intensamente, e con la morte avrei pagato ogni debito nei confronti dell’ignoto essere umano a cui avevo rubato, senza volerlo, la sua dote vitale di fortuna. Mi chiesi ancora una volta chi fosse il mio sventurato compagno di viaggio: in quale strada di Londra stesse cercando di venire a capo delle allucinanti traversie cui il karma, o il destino, l’aveva condannato negli ultimi tre mesi”.
Avevo messo questo libro nella lunga lista delle prossime letture, incuriosita dall’originale trama, dopo aver sentito una recensione alla radio, quando mi è capitato un fatto veramente singolare.
Scorrendo la mia raccolta digitale di libri da leggere, ho pescato del tutto a caso, incuriosita dal titolo e attratta dall’autore, che è sempre una garanzia, un volumetto di Friedrich Dürrenmatt, Greco cerca greca (Einaudi 1975 e 2006), pubblicato dal grande autore svizzero nel 1955.
“Lui si chiamava Arnolph Archilochos. – Povero ragazzo, – diceva la signora Bieler da dietro il banco. – Come si fa a chiamarsi a quel modo! Auguste, portagli un altro bicchiere di latte.
Di domenica invece diceva: – Portagli un’altra bottiglia di acqua minerale -. Ma suo marito Auguste – un mingherlino, vincitore di un leggendario giro della Svizzera e secondo arrivato in un ancor più leggendario Tour de France, che serviva vestito da ciclista, in maglia gialla, e riusciva così a coltivare una piccola clientela di tifosi – suo marito non era d’accordo. – Il tuo debole Georgette, – diceva al mattino alzandosi o stando ancora in letto, oppure alla sera, quando tutti se n’erano andati e leui poteva scaldarsi le sottili gambe pelose dietro la stufa, – il tuo debole per il signor Archilochos non lo capisco proprio. Non è mica più un ragazzo ormai, è solo un uomo malriuscito. Come si fa a non bere altro che latte e acqua per tutta la vita!”
La trama: Arnolph Archilochos è un piccolo impiegato delle officine Petit-Paysan, sezione forcipi, che vive nell’anonimato in una misera soffitta, frequenta una piccola trattoria e si è costruito un piccolo mondo basato su un proprio concetto di morale e sul rispetto della gerarchia.
Fino al momento in cui pubblica un annuncio matrimoniale. Da allora, con l’arrivo di Chloe, la vita di Archilochos accelera in maniera imprevedibile. E tutto comincia ad andargli bene, fin troppo bene.
Magistrale è il punto in cui il povero Archilocos, ligio impiegato nel settore forcipi, all’ultimo gradino della scala gerarchica della Petit-Paysan, viene convocato prima dai diretti superiori, e quindi, in un crescendo di improbabili elogi, dai superiori dei superiori fino ad arrivare del tutto involontariamente davanti al grande capo, dalla cui stanza esce con la nomina a direttore di ben due settori.
Una fortuna sfacciata che, per il modesto Archilochos non fa presagire nulla di buono, tanto più che, mentre sale a velocità folle i gradini della scala sociale, il suo piccolo mondo fatto di certezze morali si sgretola senza alcuna pietà.
L’incredibile somiglianza fra le due trame non può non saltare agli occhi. In entrambi i casi il protagonista vive un periodo di fortuna assoluta, che anziché fargli salire il morale alle stelle, lo getta in uno stato di prostrazione. Anche se Dürrenmatt ambienta la propria storia nella capitale francese in anni imprecisati, mentre Bacà descrive (grazie a Google Maps e Street View) una Londra che non ha mai visitato; anche se i protagonisti del primo sono greci e quelli del secondo irlandesi e britannici. In entrambi i romanzi il continuo verificarsi di eventi fortunati ai “danni” dei protagonisti genera la certezza che qualcosa di brutto stia per accadere, alimentando così la tensione della storia che si risolve con dei finali sorprendenti.
E potremmo andare avanti a lungo con il gioco delle differenze e delle similitudini. Ma quel che conta, alla fine, è il filo che porta avanti la storia, così originale, nel caso di Durrenmatt che, nella ripetizione della stessa (seppur in un contesto narrativo del tutto diverso) nel libro dell’esordiente Bacà, potrebbe destare qualche dubbio. Non certo di plagio, per carità. Ma quantomeno sul luogo dal quale il giovane autore ha tratto la propria ispirazione.
In occasione della presentazione di Benevolenza cosmica all’ultimo Book Pride di Milano, Bacà, insegnante di ginnastica per anziani, ha spiegato che la scrittura del suo romanzo è avvenuta in un periodo poco felice e pieno di frustrazioni personali. Riflettendo sulla propria infelicità, dovuta al fatto che tutte le cose gli stessero andando male, lo scrittore si era posto il quesito inverso: “Sarei felice se invece tutte le cose andassero bene?”.
Di sicuro quella di Bacà è un’ottima prova, non a caso è stato pubblicato da Adelphi, una casa editrice che tradizionalmente non punta sugli esordienti.
La scrittura raffinata e brillante, lo stile travolgente insieme a un solido talento narrativo, fanno della lettura di questo libro un’esperienza che vale la pena vivere.
Di Friedrich Dürrenmatt è invece superfluo parlare sia della scrittura, dello stile e della sua importanza come autore.
C’è qualcosa però che pone il lavoro di Durrenmatt su un livello diverso rispetto a quello di Bacà. Lo spiega il curatore della nuova edizione Einaudi sul risvolto di copertina, quando definisce Greco cerca greca, “una satira sul gioco del potere e le sue connivenze, che finisce per chiudere tutto in un gomitolo dal quale è difficile estrarre il capo e la coda”.
Inserendo così questo libro nella lista delle opere senza tempo.
(30 maggio 2019)
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