di Simona Pacini
Stavo seguendo un ciclo di lezioni sulla poesia di Emily Dickinson quando la mia vicina si girò verso di me e mi disse tra l’annoiato e l’aria di chi la sa lunga: “Ma come faceva lei a scrivere di amore se non si era nemmeno mai sposata?”. La domanda mi risultò estremamente sgradevole. In primo luogo perché mi distraeva dall’ascolto di questa ape sbarazzina che volava fra i fiori e dal raccoglimento in cui mi ero disposta per assorbirne i versi; secondo, perché mi disturbò la sua evidente superficialità.
Quel veloce incontro con la poetessa americana mi aveva lasciato una sensazione luminosa intorno alla sua persona e alla sua arte. Ne avevo apprezzato la figura, che immaginavo ieratica e solitaria, nella sua veste bianca; ricordavo le immagini azzardate, l’ironia, il ritmo e l’incisività delle sue parole. Il coraggio, anche, di inventarsi una punteggiatura nuova, riuscendo a far parlare perfino un semplice trattino.
Fame is a bee.
It has a song –
It has a sting –
Ah, too, it has a wing.
La fama è un’ape.
Ha un canto –
Ha un pungiglione –
Ah! ha anche un’ala.
Qualche tempo dopo mi sono imbattuta in una collana di libriccini editi dalla casa editrice L’Orma, dal carattere singolare. All’inizio mi hanno incuriosito il formato, grande non più di una mano (tecnicamente un quasi A6), e la sovraccopertina, piegata in modo da trasformarsi in una busta da affrancare e da spedire. E anche il colore della carta, dalle sfumature antiche, dal petrolio al verde, all’ocra o all’arancio. I Pacchetti è il nome della collana che comprende raccolte inedite di lettere, tratte dagli epistolari di alcuni dei massimi artisti e pensatori di ogni tempo. Fra i volti di Gramsci, Baudelaire, Leopardi, Shakespeare, Artusi, Pessoa, Woolf, si stagliava anche quello iconico, dai lunghi capelli raccolti, con il nastrino al collo e la scollatura rotonda, di Emily Dickinson (1830-1886).
Un vulcano silenzioso, la vita. Lettere di un genio pudico (L’Orma editore, 2013), traduzione di Marco Federici Solari, alla terza ristampa (novembre 2018), è il titolo della mini raccolta in cui la poetessa americana, “in un universo di affetti tanto ristretto quanto tenero ed esplosivo – si legge nella frase in seconda di copertina – contempla e giudica il mondo, lo rifiuta in eruzioni laviche o lo sublima fino all’accecante calor bianco di una luce di rivelazione”.
Fra i destinatari delle lettere (il direttore dello Springfield Republican Samuel Bowles, la cognata Susan, il fratello William Austin, il cugino medico John Long Graves, il pastore, giornalista e scrittore Thomas Wentworth Higginsos, l’amica Elizabeth Gilbert Holland, la compagna di scuola Abiah Root e la cugina Clara), spicca il nome di Otis Phillips Lord, giudice e amico di famiglia che verso la fine della sua vita ebbe un’intensa relazione con la poetessa.
Una passione “improbabile”, secondo la stessa Dickinson, quella che scoppia nel 1878 verso l’amico del padre, Lord, uomo colto e appassionato di Shakespeare, più vecchio di lei di diciotto anni, che l’aveva tenuta in braccio da bambina.
“Il mio dolce Salem mi sorride – scrive Emily -. Così spesso cerco il suo viso – ma ormai ho dismesso ogni posa. Confesso che lo amo – gioisco all’idea di amarlo – ringrazio il creatore del Cielo e della Terra – che me lo ha dato da amare – l’esultanza mi inonda. Non trovo più argine – il Ruscello diviene Mare – al pensiero di te –”
Emily è sola. I genitori sono scomparsi entrambi e Lord si stringe alla famiglia per supportarla nel momento di difficoltà. E’ in questo contesto che il desiderio di tenerezza e la solitudine di Emily si trasformano in altro.
“Il “Cancello” appartiene a Dio – Mia Dolcezza – ed è per amor tuo – non per me – che non te lo lascerò oltrepassare – ma è tutto tuo e quando sarà il momento solleverò le Sbarre e ti farò sdraiare sul Muschio – parola che mi hai mostrato tu”.
Purtroppo la maggior parte del carteggio verrà distrutto e censurato dai familiari che ne cureranno il lascito. Le quindici lettere che ci restano, alcune in forma di abbozzo, dipingono un amore in cui convivono familiarità, amicizia e passione lacerante.
Per decenni è stato diffuso il pettegolezzo secondo il quale la poetessa era stata trovata un giorno in salotto tra le braccia del giudice. Da allora la nipote del magistrato, contraria a questa unione perché timorosa per la propria eredità, l’avrebbe chiamata la “piccola svergognata”.
“Emily “Jumbo”! Nome dolcissimo, ma ne conosco uno più dolce – Emily Jumbo Lord. Ho la tua approvazione?”.
Nelle poche missive superstiti possiamo ancora cercare le testimonianze di questo amore, provando a immaginare se sia stato platonico o reale, chiedendoci se sia poi così lecito sviscerare l’intimità di una donna, seppur assurta a simbolo dell’arte della poesia.
“Ho voglia di sperperare la mia Guancia sulla tua Mano questa notte” si legge nell’ultima lettera a Lord, del 1883, un anno prima della scomparsa dell’uomo.
“La Notte è il mio Giorno preferito – amo così tanto il silenzio – il silenzio, non la semplice sospensione del suono – ma quelli che tutto il giorno parlano di nulla, scambiandolo per letizia… – Ti perdono”.
In realtà, il vero mistero nella vita di Emily Dickinson è un altro ed è tuttora nascosto in tre testi scritti fra il 1858 e il 1861 al Maestro, il nome (un Senhal di trobadorica memoria) attribuito a un enigmatico amante. Tre lettere di cui sono incerti la datazione, l’ordine di redazione, l’identità del destinatario e la sua stessa esistenza, nonostante le identificazioni proposte da critici e biografi. Se il Maestro sia il carismatico predicatore Charles Wadsworth, l’amico del fratello Samuel Bowles o il giudice Otis Lord, non è dato sapere.
Ma in queste liriche appassionate, frutto di un esperimento creativo e di un terremoto psichico allo stesso tempo, la Dickinson, che si dà il nome floreale di Margherita, (sì, avete letto bene, il Maestro e Margherita, un secolo prima di Bulgakov), esprime la sua idea sacra e profana, infantile ed estrema dell’amore.
Un amore che, nell’isolamento della casa di famiglia di Amherst, Massachusetts, e nella sua profonda capacità di introspezione, non ebbe mai bisogno di un matrimonio per disvelarsi.
(8 marzo 2019)
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